"Chiamami col tuo nome"

Intimità. Questo è, probabilmente, il lascito più evidente dell’ultimo film di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome (Call me by your name), già foriero di successi oltralpe e oltreoceano. È un’intimità all’interno della quale il pensiero inconfessabile può sentirsi protetto, i corpi sì avvilupparsi, i piedi tentare goffe carezze che raccontano più del bacio che toglie il respiro, sì. Eppure, l’impressione è che non sia un affondo esclusivamente tematico della storia tratta dal romanzo omonimo di André Aciman – parabola amorosa estiva di due giovani uomini nell’estate del cremasco sui primi anni ottanta – o le relazioni tra gli attori, si tratta bensì di un’intimità soprattutto di carattere filmico, che si permette la libertà di raccontare a chi vi assiste un mondo sfaccettato attraverso un’intensa compagine di dettagli spaziali, emotivi, financo sensoriali.

Ci si riconosce nelle estati dell’adolescenza, torbide, sonnolenti e brulicanti, sconvolgenti tanto più perché “in potenza”, in una dimensione in cui tutto potrebbe accadere (e forse non è così tanto importante che accada perché ciò che è centrale è averlo provato). Ci si riconosce nei tempi della sospensione (poiché sospensione è a sua volta un ritmo: non già sua assenza), che non sono i tempi morti dell’azione, ma tempi in cui si radica la riflessione all’agire; nel desiderio di condivisione del proprio luogo segreto, di quanto si scrive, dei libri amati, perché è questo che, specie nell’adolescenza, ci identifica come persone. Ci si riconosce quando la macchina da presa si sofferma magari sui tappi di uno shampoo usato da bambini, sul dettaglio dell’orologio ossessivamente guardato, ripreso – letteralmente e figurativamente – anche alla fine di un’esecuzione al pianoforte da parte di uno dei protagonisti.

Emerge quindi una sorta di sensuosità nello sguardo, capace di mimare il tempo (adolescenziale) delle scoperte in cui si fanno proprie le cose (o le si chiama col proprio nome, quali tasselli di storia personale). Guadagnino costruisce un film “conoscendo” le cose che filma con un’onestà deflagrante – l’intimità di cui si parlava prima – anche nei suoi momenti apparentemente meno significativi.

Ritornando alla presenza dell’orologio: acquisisce un’importanza notevole durante alcune sequenze centrali, quasi assurto a oggetto simbolico dell’attesa (tanto nel romanzo quanto nel film che lo riprende nella sceneggiatura di James Ivory – tra l’altro indagatore dell’intimità di altri inglesi in Italia: Camera con vista (1986) – abbastanza fedelmente, ad eccezione dei luoghi – Lombardia anziché Liguria e Roma – e nel finale, più asciutto). Pare di sentire la lezione di Barthes che nel suo vocabolario sulle forme del linguaggio d’amore esamina, tra gli altri, comportamenti e contesti dell’attesa dell’amato. Durante l’attesa, tutto può essere «futile o infinitamente patetico», ma si finisce – continua – per perdere il senso delle proporzioni.

Elio, dopo essersi dichiarato a Oliver e esserne stato anche baciato, a fine giornata riceve attraverso un biglietto che arriva in ritardo («later», come dall’intercalare tipico dell’americano), un appuntamento: «Grow up. I’ll see you at midnight». Cosa fa allora, Elio, a quel rimprovero neanche tanto celato? Cerca, nell’attesa, le attenzioni di Marzia, che è di lui invaghita, ci fa l’amore, ovvero – ritorna ancora una volta Barthes – si allontana dal suo oggetto d’amore. Eppure, non manca in nessuna sequenza l’osservazione dell’orologio, anche la comunicazione dell’ora diventa un modo per sottolineare quell’atteggiamento smisurato, pieno d’angoscia che contemporaneamente simula differenza.

A questo punto, è giusto rilevarlo, il trattamento della tematica omoerotica è fortunatamente poco orientato ai cliché della letteratura, ad eccezione forse di un trattamento della relazione tra i due che per alcuni aspetti potrebbe rimandare alla paideia classica. Ma è anche vero che se Oliver è più maturo, è Elio a farsi avanti per primo, a immaginare di condurre il gioco, a piangere, poi, tra le sue braccia per il sollievo della rivelazione. Atteggiamento ancora più evidente nel romanzo, nel quale anzi, durante tutta la prima parte, la scrittura concretizza l’ossessione di Elio nei confronti del giovane studioso ospite nella villa estiva della sua famiglia, nel film certamente ammorbidita.

Elio, diciassettenne italo-franco-americano figlio di una famiglia agiata e colta (che, tra l’altro accetta con una naturalezza, disarmante nella sua tenerezza, la sua omosessualità) è anzi parte di una coralità, quella del paesino del cremasco nel quale si trova la villa di famiglia dove ogni anno i genitori offrono una vacanza studio a giovani studiosi. È in quella che irrompe Oliver (Armie Hammer), americano, alto, bellissimo, filosofo eracliteo che sembra lasciare scia di cuori spezzati ovunque guardi, «tutti adorano Oliver». Se il rischio era la contrapposizione dei caratteri timido/spavaldo, in questo caso i due protagonisti, Elio soprattutto, sono colti nel quotidiano, nella lettura, a colazione, a fare il bagno, o con gli amici in piazza, in bicicletta, e mentre ascoltano musica. In questo sicuramente interviene anche la qualità e l’intelligenza degli attori: nelle scene più esplicitamente passionali, la loro sensualità arriva con estrema misura e naturalezza. La rivelazione dei sentimenti arriva come una sfida, in una distanza fisica quasi di stampo teatrale, per cui a dividerli è la ringhiera di un monumento ai caduti, mentre la macchina da presa, a distanza, discreta, si allontana un attimo dagli attori, per lasciar respirare il peso della confessione, al pari dei pensieri dei protagonisti, a rimestare sulle possibili conseguenze.

A latere sono le note impressioniste e languide de Une barque sur l’océan dai Miroirs di Ravel, che conferiscono ulteriormente un’atmosfera sospesa alla scena. La qualità della colonna sonora (al di là di alcuni brani diegetici che rafforzano la contestualizzazione storica dei primi anni ottanta), non è da considerarsi soltanto un accompagnamento o un raccordo, quanto invece un’ulteriore chiave di lettura della psicologia della scena e dei comportamenti dei personaggi, come ad esempio M.A.Y. in the Backyard di Ryuichi Sakamoto, leitmotiv per la progressiva acquisizione di sicurezza.

Sullo sfondo (quasi un po’ a contraltare) della storia d’amore si situa la minuziosa ricostruzione storico-politica del periodo, a conferma di quella necessità di scavo intimo dei fatti di cui si diceva in apertura. In una recente intervista Guadagnino racconta:

Volevo che questo pezzettino d’Italia del 1983 fosse il più accurato possibile. Abbiamo recuperato migliaia di foto di famiglie e case del cremasco che raccontavano le estati dell’82, ’83, ’84. Da quelle immagini abbiamo capito che quello era l’anno delle elezioni, di Craxi e del Pentapartito, vedevamo le foto dei ragazzini del muretto con dietro questi poster elettorali col garofano.

 

Tale dimensione (c’è anche un rimando televisivo di un allora giovanissimo Grillo) si avverte nei dialoghi tra le persone comuni, chi si fida e a chi non convince o nell’eterno parossismo delle conversazioni da salotto (che in questo caso è il giardino) sulla situazione politica italiana, ancora più esasperata dai caratteri volutamente grotteschi degli zii del protagonista (nel cammeo di due attori di estrazione teatrale, Elena Bucci e Marco Sgrosso, de Le belle Bandiere).

«By any other name would smell as sweet», stigmatizzava Shakespeare. Call me by your name rappresenta la richiesta più oscena (fuori dal consueto), perché permette, attraverso una riappropriazione identitaria, di esemplificare un’unione totalizzante, nel momento in cui si abbandona la propria soggettività riconoscendosi nel nome dell’altro.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979.
A. Finos, Guadagnino, Per l’Italia non esisto ma Tarantino ha pianto col mio film, «la Repubblica», 29 settembre 2017.
W. Shakespeare, Romeo e Giulietta in Tragedie, Mondadori, Milano 2005.

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