Al centro di ogni processo c’è la figura dell’imputato,
il quale è un individuo in carne e ossa,
con una sua storia personale,
con un complesso particolare di qualità,
di modi di agire e di reagire.

Hannah Arendt, La banalità del male

È difficile parlare di un film come questo. L’insulto (in originale L’insulte, selezionato tra i migliori film stranieri agli Oscar 2018) di Ziad Doueiri, di produzione franco-libanese (la produttrice principale è Julie Gayet, la compagna di Hollande), racconta il meccanismo del processare incarnandolo in un vero e proprio courtroom movie o legal thriller, e sceglie di farlo aprendo uno squarcio nella delicatissima questione libano-palestinese, da cui tutti noi siamo da anni mediaticamente “bombardati”.

È vero che il regista, nel portare sullo schermo una materia che scotta, da molti rimossa e allontanata e da altrettanti faziosamente sbandierata come strumento strettamente politico, si affida ad un linguaggio “occidentale” mirato alla divulgazione e alla chiarificazione,  in grado di “dissezionare” allo spettatore una delle questioni politico-religiose più dense e intricate dei nostri giorni (e Doueiri ne ha pagato in prima persona le conseguenze essendo stato trattenuto all’aeroporto di Beirut al ritorno da Venezia con un pretesto riguardante il suo precedente film). È allo stesso tempo vero che chi si trova a voler discutere o scrivere del film non cessa di sentirsi, come un funambolo sospeso a metà del suo percorso, in bilico nel mezzo di una strada di cui è rischioso percorrere l’altra metà, ma in cui sarebbe folle tornare indietro e annullare il già fatto. Così, portata al centro del filo dal regista, con le vertigini e la paura di non poter dare forma ad una storia ancora così fresca e costantemente “calpestata”, scelgo di accettare il rischio e rimanere a metà tentando di analizzare uno degli aspetti che egli desiderava senza dubbio comunicarci attraverso il suo film: il complesso rapporto, a volte contraddittorio, tra il dentro e il fuori di un’aula di tribunale in cui si sta svolgendo un processo (che si rivelerà tuttavia un dentro-fuori ben più articolato).

Beirut, quartiere popolare. Un capo-cantiere palestinese, Yasser (Kamel El Basha, vincitore della Coppa Volpi al 74esimo Festival del Cinema di Venezia) aggiusta un tubo di scarico dell’acqua mal funzionante nel balcone del libanese cristiano Tony Hanna (Adel Karam), il quale, dopo aver intimato all’operaio di non toccarlo ma vedendolo nonostante ciò riparato contro la sua volontà, lo distrugge platealmente con un martello accendendo la miccia in Yasser di quel “cane” (il famoso insulto) che plasma “a domino” tutto il resto della vicenda. Di lì, la pretesa da parte di Tony di un’altra parola, “scusa”, che, non trovando la condizione in cui manifestarsi – Yasser prima si rifiuta e poi, quando ci prova, viene provocato violentemente dall’altro con la voce alla radio del leader anti-palestinese Bachir Gemayel e aggredisce Tony con un pugno fratturandogli due costole – porta i due in tribunale. È dietro queste due parole – una uscita fuori dalla bocca come sfogo istintivo, l’altra trattenuta dentro per altrettanto istintuale rigetto – che si apre potente il mare della Storia con la “s” maiuscola, riflesso a specchio nelle storie personali dei due protagonisti.

Il primo fuori dunque, quello dell’inizio del conflitto e della causa scatenante il processo, è un fuori fatto di linguaggio, di schemi, di preconcetti: persone che non sanno nulla l’una dell’altra, parole innalzate a simboli ancora vuoti e privi di intuizioni concrete, giudizi assunti come base dell’accusa e che tuttavia vestono in pieno quel perniciosissimo, usuale, “pre”. Questo tipo di fuori si trova completamente in accordo con il primo dentro che si viene a creare, nell’aula del tribunale, in cui è sul peso delle parole che si focalizza l’attenzione: quelle testimoniate e ancora di più quelle non testimoniate ma presentite dai giudici negli occhi dei due, come quella frase, “magari Ariel Sharon vi avesse sterminati tutti”, rivolta da Tony a Yasser, che in un primo momento scagiona Yasser e che solo in seconda battuta verrà citata dall’avvocato della difesa pubblicamente. Fin quando dentro e fuori rimangono sincronicamente paralleli ad un immacolato e formale livello simbolico in cui è impossibile per le due dimensioni contaminarsi e trasformarsi e in cui è dato l’accesso solo ad un ufficialissimo intervento penale, nulla si muove.

Il film vuole raccontarci però un’evoluzione, quella che, frantumando la barriera tra il dentro e il fuori “aula” (ma non soltanto) condurrà questo binomio ad una ritrovata unità; un’unità che rimarrà certamente sempre sofferta e “spiazzante” per i personaggi, ma il cui travaglio sarà ripagato da una conclusione che nessuno si sarebbe aspettato inizialmente. La sincronia forzata degli slogan politici, dei convenevoli e delle strategie legali deve essere rotta, o dentro o fuori, perché sia l’asincronia conflittuale e controversa tra i due spazi a crearne un terzo di sospirato incontro. Il primo passo lo fa il fuori, che progressivamente si declina in gesti, racconti, scoperte che al canto dell’obiettiva colpevolezza – che nel frattempo in tribunale passa alternativamente da una parte all’altra – oppone il controcanto più striato della verità realmente vissuta, che quella goccia del tubo di scarico fa via via “traboccare”. Lo stato emotivo sembra debba essere tenuto all’esterno delle quattro mura del tribunale, dunque la “crescita emotiva” dei due personaggi – affiancati dalle mogli (Rita Hayek e Christine Choueiri), entrambe forze trainanti nel processo di consapevolezza a cui i mariti sono obbligati a sottoporsi e nel “lavoro di sintesi” delle loro rispettive esperienze di vita – avviene nelle case e nelle strade di Beirut, “tirata” continuamente “indietro” dal processo che sta avvenendo internamente all’aula e che fa resistenza alle emozioni, a quello “stato emotivo forte” di cui però non smette di riempirsi la bocca senza calare nella sua più nera profondità.

Il fuori diviene così il vero “dentro”, quello emotivo, catalizzato in entrambi i casi da un passato che non si vorrebbe far riemergere ma che riemerge (in cui la Storia si incrocia con le storie individuali in un’infinita spirale e a più “altezze”), mettendo in movimento il presente, “scongelando” quest’ultimo in un dolore indesiderato e apparentemente lontano che deve tornare palpabile ed essere ammesso perché ognuno, in questo nuovo ri-volgerglisi, si ricostruisca e ritrovi la mobilità del suo punto di vista. Yasser ha vissuto in prima persona la strage del ’76 nel campo profughi di Tel al-Zaatar da parte delle truppe cristiano-maronite e della Siria alawita, Tony ha visto uccisa da bambino la sua famiglia nella rappresaglia palestinese nel villaggio di Damour. Entrambi vivono  astiosità ataviche e viscerali che necessitano di essere dissotterrate ed esternalizzate perché si compia il rivoluzionario movimento dal dentro emotivo verso il fuori asettico del tribunale (ormai a parti invertite).

Questo movimento avviene precisamente quando l’avvocato dell’accusa (Camille Salameh) – a sua volta coinvolto più intimamente di quanto si creda in quanto accusato nel bel mezzo del processo di essere un “cane sionista” (e dando così adito ad un ulteriore livello di polemica intorno al processo) e padre della giovane ma tenace avvocatessa della difesa (Diamand Bou Abboud) – decide di assumersi la responsabilità di riversare l’emotivo sul penale, l’interiorità esterna sull’esteriorità interna. In questo impeto di improvvisazione da parte dell’avvocato Wehbe che “contro le regole” racconta della strage di Damour lasciando giudici sbigottiti e provocando nello stesso Tony un’iniziale reazione negativa di chi si sente tradito, scoperto, esposto, nel disorientamento generale scardina definitivamente quel meccanismo i cui ingranaggi già erano stati via via compromessi dai fatti del “fuori” e dai loro conseguenti effetti in aula. Ed è solo in questa distruzione esplicita degli schemi che dall’asincronia si riconquista un totale coinvolgimento reciproco (ben lontano dalla prima, fittizia, sincronia) tra i due spazi, e il raggiungimento dunque di quell’universalità che questo caso specifico rappresenta e che porta in tribunale un numero sempre più accanito di giornalisti e “pubblico”.

L’insulto ci presenta una verità non “processata” nelle sue forme legali, bensì grazie a quelle vitali. Detto altrimenti, il processo “ufficiale” impostato all’origine della disputa sembra rappresentare quanto di più artificioso e contro-natura ci sia, poiché si ha paura (in primis i due contendenti) di affrontare la natura vera delle cose. L’assecondare l’”artificioso” non fa che allontanare coloro che vivono l’avvicendarsi degli eventi dall’avvicendarsi stesso di questi; tutto sembra inizialmente dissonare e seguire un corso innaturale: dalle più piccole cose, come i tacchi a spillo dell’avvocatessa nel campo palestinese di Beirut o la scatola di cioccolatini in ridicolo segno di scuse che passa di mano in mano nel cantiere di Yasser, fino ad arrivare alla tragedia che vivono Tony e la moglie Shirine (che vediamo con il pancione nella primissima scena del film) quando, a causa del famigerato stress emotivo dovuto al processo e all’incidente di Tony che si ostina (ancora una volta per rabbia e contro natura) a continuare a lavorare da meccanico malgrado le costole rotte, la donna ha un malore e i medici sono costretti a far nascere la piccola prematuramente mettendone per lungo tempo a repentaglio la vita. È forse quest’ultimo il simbolo più forte di una natura che, solo falsamente naturale, ha voltato le spalle a se stessa e ha bisogno di essere scardinata per fissarsi in nuovi solchi, passando per la riscoperta intima, il disvelamento pubblico e finalmente la nuova unione (questa volta davvero naturale) del processo della vita e di quello giuridico. Comprendendo che “nessuno ha il monopolio della sofferenza”, nessuno si sente a casa propria fin quando non sceglie le sue radici e il luogo dove affondarle; non c’è dentro che tenga senza un fuori che si evolve, non può esistere a pieno alcun fuori senza che si abbia il coraggio di intrecciarlo al dentro.

Alla resa dei conti, questi ultimi vengono fatti in una notte silenziosa, quella subito prima del verdetto finale, tra i due uomini. Yasser provoca un’ennesima e ultima, radicale, volta, Tony; Tony lo colpisce (questa volta lui) con un pugno in pancia; dopo il colpo e una frazione di secondo per riprendere fiato, dalle labbra di Yasser esce quello “scusa” che si attende da tutto il film. Ma ha un sapore ben diverso, ha il sapore di quell’inversione di ruoli, di spazi e di storie che abbiamo cercato di dipingere fin qui, un’inversione che l’avvocatessa stessa definirà il mattino dopo in aula semplicemente “umana”.

Riferimenti bibiliografici
H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2013.

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