Ogni occidentale tormentato
fa pensare a un eroe dostoevskiano
con un conto in banca.
E.M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza
Tra le uscite più attese del 2019 c’è la sesta stagione di BoJack Horseman, la serie TV animata per adulti in onda su Netflix da agosto 2014. Il suo creatore Raphael Bob-Waksberg ha lanciato una curiosa iniziativa che permetterà al più fortunato dei partecipanti di diventare un personaggio della serie. Facendo una donazione in favore della fondazione californiana Wildfire Relief Fund, che sostiene le vittime degli incendi boschivi, si concorre al sorteggio di un volo per Los Angeles dove il vincitore potrà visitare gli studios e incontrare il team creativo della serie. A questo punto disegnatori e fumettisti creeranno un personaggio che abbia le sue caratteristiche fisiche e che comparirà in un episodio della prossima stagione. Dopo Bandersnatch – l’episodio interattivo di Black Mirror la cui trama è modificabile in base alle scelte del pubblico – si tenta ancora una volta di coinvolgere molto da vicino lo spettatore rilanciando il grande tema che fa da motore alla serie: la voglia di occupare il centro della scena.
BoJack Horseman ha per protagonista un cavallo antropomorfo, ex star televisiva, che percorre controvoglia il suo viale del tramonto nello sfavillante clima hollywoodiano della città più superficiale d’America: Los Angeles. Delirante, politicamente scorrettissima, vagamente nichilista, costellata di pregiati riferimenti cinematografici, la serie intercetta e amplifica alcuni degli aspetti tipici del nostro tempo, perché dietro le vicende di un cavallo ossessionato dal desiderio di piacere – e apparentemente innamorato soltanto di sé stesso – è facile riconoscere il tratto che più accomuna il nostro modo di stare al mondo oggi: la preoccupazione di apparire migliori di quello che siamo, preoccupazione che muove a sua volta da un bisogno più profondo e comune a tutti gli esseri umani, cioè il bisogno di essere apprezzati.
Nelle società contemporanee l’impressione che speriamo di produrre negli altri è arrivata a rivestire un ruolo sempre maggiore. Come osserva Gloria Origgi nel suo corposo studio sulla reputazione, a caratterizzare dal punto di vista sociologico le società tardo-liberali c’è innanzitutto «un’angoscia costante di posizionamento e di status» (Origgi 2016, p. 67): non esistiamo al di fuori di ciò che si dice di noi.
“Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!”, tuonava Norma Desmond in Viale del tramonto (Wilder, 1950), ex diva del cinema muto distrutta dall’avvento del sonoro e soppiantata da un nuovo star system in cui per lei non c’era più spazio. Oltre sessant’anni dopo, gli effetti collaterali del diventare famosi – è quello che avviene in BoJack Horseman – sono sempre gli stessi: il successo crea dipendenza, quando viene a mancare ci si sente terribilmente soli e la paura di essere dimenticati rende la vita impossibile. Ma la gente adora i crolli nervosi delle celebrità (come racconta il documentario The American Meme, diretto da Bert Marcus e uscito su Netflix nel 2018), ed è anche per questo che BoJack Horseman piace tanto.
BoJack è autodistruttivo, depresso, bulimico, narcisista, incapace di relazioni stabili e forse addirittura di provare sentimenti. La sua cattiveria è integrale, e anche quando è mosso da buone intenzioni riesce sempre a rovinare tutto. È solito azzittire la sua coscienza ingollando pillole e vodka, per poi restarsene seduto a guardar precipitare le cose. Deluso dalla sua stessa biografia – che ne rivela la vita miserabile e imperfetta – passa le giornate a scontare un disprezzo materno mai perdonato (“Sei nato storto, sbagliato. Sei nato BoJack Horseman e non c’è cura per questo”), rinviando puntata dopo puntata il proposito di diventare una persona migliore. Il resto sono sbornie tristi, sciagure sentimentali, set abbandonati, progetti abortiti, scivolando lentamente verso un’abiezione da cui è impossibile risollevarsi (“Il lieto fine – dice a un certo punto nella prima stagione – è una cosa inventata da Steven Spielberg per vendere biglietti”).
Nonostante red carpet prestigiosi, piscina-party – tra ville circondate di palme, ex mogli, Tesla parcheggiate in giardino ed elicotteri dorati – BoJack è inconsolabile: neppure il privilegio di essere superficiali riesce ad appagarlo. Da qui il filo sottile che unisce e attraversa tutte le puntate: la ricerca di qualcuno che lo faccia sentire meno sbagliato, cioè che sia capace di amarlo.
Il sentimento di sé, osservava Freud a proposito del narcisismo, è strettamente legato alla vita amorosa. Il narcisista smette d’amare. Si ritira sulla propria persona a spese degli altri, senza alcuna possibilità di contatto creativo e produttivo con il mondo. La dipendenza dall’oggetto amato infatti avvilisce, nel narcisista, il sentimento di sé, quel sentimento che lui invece mira a innalzare: per questo pretende di essere amato, e rimane fissato sulla propria immagine proprio come una persona tormentata da un malessere organico abbandona ogni interesse per tutto ciò che non ha a che fare con la sua sofferenza (Freud, 1976). L’amore non ricambiato (lo sappiamo tutti, perché siamo tutti un po’ narcisisti) fa male come una ferita.
Se l’antropomorfismo (cioè l’attribuzione di qualità umane a esseri animati o inanimati) ha caratterizzato la lunga tradizione favolistica che da Esopo a La Fontaine arriva fino a Walt Disney, lo zoomorfismo (che consiste invece nell’attribuzione di qualità animali ad esseri umani o inanimati) è il tratto decisivo della serie, che accanto agli animali – la cui fisionomia li rende comunque credibilissimi nei ruoli di persone – vede comparire anche uomini e donne con sembianze umane, a suggerire un legame più stretto con quello che noi stessi siamo (non dimentichiamo che l’etimologia latina di animazione e animale lega entrambi i termini al dare vita, all’anima).
L’iniziativa lanciata da Raphael Bob-Waksberg si muove esattamente in questa direzione. È curioso inoltre notare che, a differenza di quanto avviene nelle favole, in BoJack Horseman non c’è alcuna morale, almeno per ora. I vizi prevalgono sulle virtù, le cattive azioni sono difficili da perdonare, gli errori irreparabili, i sensi di colpa impossibili da espiare. BoJack è irredimibile: forse è per questo che gli è stata data la forma di un cavallo, animale che – come osserva brillantemente Roberto Finzi – simboleggia nobiltà, ricchezza e distinzione sociale soprattutto grazie all’esistenza dell’asino, che fa il brutto al posto suo (Finzi, 2017).
Accanto ai personaggi animali (tra cui ricordiamo la gatta rosa Princess Carolyn, agente di BoJack e sua ex amante, e l’antagonista Mr. Peanutbutter, affettuoso labrador giallo dall’entusiasmo stucchevole) appaiono dunque anche “persone”: il simpatico Todd Chavez, ventiquattrenne sfaticato che vive sul suo divano e che tutti trattano malissimo, e naturalmente Diane, la ghostwriter di BoJack: responsabile, umana, coscienziosa, qualcuno di cui egli stesso si potrebbe innamorare.
Nel corso delle cinque stagioni i personaggi si evolvono, a volte cambiano addirittura abito o taglio di capelli – cosa insolita per un cartone animato – facilitando ancora una volta la nostra identificazione. Ne deriva un allegro caleidoscopio simil-umano che tra incidenti surreali, dialoghi arguti, episodi dai risvolti comici e attenzione ai minimi dettagli porta avanti la serie da cinque stagioni camuffando un malessere di fondo che però non tarda a farsi sentire. A partire dalla terza stagione infatti aumentano i monologhi interiori di BoJack e i faccia a faccia con una coscienza sempre più spietata, la quale gli ricorda che (colpo di scena) è un pessimo padre oltre ad essere un pessimo figlio.
Come tutte le cose più divertenti, BoJack Horseman è una serie che, più la si osserva da vicino, più si rivela cupa (non c’è niente di più comico dell’infelicità, per dirla con Beckett). In questo senso, riallacciandoci con quanto dicevamo sopra, BoJack Horseman è un saggio acuto e penetrante sulla contemporaneità. La paura di non essere desiderabili è oggi tra le cause più diffuse di sofferenza mentale, e il bisogno di suscitare ammirazione e orientare l’opinione che gli altri hanno di noi è tale da portare a esibire spesso talenti inesistenti. Lo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet ha rilevato addirittura la scomparsa – nei suoi pazienti più giovani – dell’eritrofobia (la paura di arrossire), fino a vent’anni fa ancora molto diffusa tra gli adolescenti (Pietropolli Charmet 2018, p. 36). Sembrano ancora lontani i tempi in cui, come sostiene lo street artist Banksy, ai 15 minuti di celebrità ipotizzati da Andy Warhol preferiremo 15 più modesti minuti di anonimato.
Alla fine della quinta stagione avevamo lasciato BoJack in una clinica di riabilitazione intenzionato a disintossicarsi. Naturalmente speriamo che non resti sobrio troppo a lungo: fare i conti con sé stessi è doloroso, ma il pubblico – non importa se dentro o fuori dalla storia – ha ancora voglia di divertirsi.
Riferimenti bibliografici
R. Finzi, Asino caro, o della denigrazione della fatica, Giunti, Milano 2017.
S. Freud, Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino 1976.
L. Mastrantonio, Emulazioni pericolose. Linfluenza della finzione sulla vita reale, Einaudi, Torino 2018.
G. Origgi, La reputazione. Chi dice cosa di chi, Università Bocconi Editore, Milano 2016.
G. Pietropolli Charmet, L’insostenibile bisogno di ammirazione, Laterza, Bari-Roma 2018.