Nell’epoca d’oro del biopic cinematografico e seriale, il film documentario si dimostra ancora uno spazio privilegiato per il racconto di particolari vite; soprattutto, se lo scopo del racconto è quello di ricostruire queste vite mantenendo il massimo effetto di realismo, o meglio attraverso un punto di vista nonfiction (il racconto biografico, formalmente oggettivo, è mediato e plasmato dallo sguardo dell’autore, cfr. Aprà 2017) che comunque riesce a mitizzare i protagonisti. Nel panorama contemporaneo italiano, pur ricco di biopic cinematografici e televisivi, il film documentario assolve pienamente a questa funzione narrativa in relazione alla vita di fotografi, i quali non hanno trovato la stessa fortunata collocazione nella veste di personaggi rispetto alle produzioni internazionali – si pensi solo a film come Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus (S. Shainberg, 2006), Life (A. Corbijn, 2015), Il caso Minamata (A. Levitas, 2020).
Se tra le regole del biopic vi è l’idea che il racconto debba mettere al centro una vita che merita di essere raccontata, allora tale regola pare essere stata applicata alla biografia di Luigi Ghirri, protagonista di tre documentari in poco più di vent’anni: Il mondo di Luigi Ghirri (1998) di Gianni Celati; Deserto rosa (2009) di Elisabetta Sgarbi; Infinito. L’universo di Luigi Ghirri (2022) di Matteo Parisini. Quest’ultimo, presentato in anteprima il 15 ottobre 2022 alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Freestyle”, si aggiunge a una serie di iniziative destinate a omaggiare il fotografo modenese nel trentennale della morte avvenuta prematuramente il 14 febbraio del 1992. Il film di Parisini è, dunque, un ulteriore tentativo di sfruttare la capacità del cinema di far continuare a vivere il personaggio del racconto – capacità ritenuta da Roland Barthes, sul modello di André Bazin, come un «potere che a prima vista la Fotografia non ha» (Barthes 1980, p. 56).
Infinito. L’universo di Luigi Ghirri comincia dal principio. O meglio, da ciò che per Ghirri racchiude il senso della sua vocazione fotografica: Earthrise, la prima immagine del pianeta Terra visto dall’orbita della Luna, scattata da uno degli astronauti dell’Apollo 8 nel 1968 («L’immagine rincorsa per secoli […] conteneva tutte le immagini del mondo [… eppure si rivela] non sufficiente per sciogliere gli interrogativi di sempre», Ghirri 1997, p. 18). Ma il film comincia anche dal principio della sua incessante attività di scrittura e di pensiero sulla fotografia: l’incipit di Kodachrome, il primo progetto fotografico a cui egli si dedica a partire dal 1970 nonché il primo libro pubblicato nel 1978 con la sua casa editrice Punto e Virgola.
La nonfiction di Parisini – già autore di numerosi documentari, tra cui La Mia Virgola. Enzo Biagi alla Scoperta del Mondo (2020) – intreccia interviste, immagini scattate da Ghirri, filmati che mostrano il modenese giocare nel ruolo di se stesso, filmati amatoriali realizzati dal fotografo, estratti dei suoi scritti declamati da Stefano Accorsi, mostrando così di avere diversi elementi in comune con i documentari di Celati e Sgarbi. Il risultato è un film che mette in evidenza alcuni tratti essenziali dell’opera e dell’operatività ghirriana.
Le parole degli intervistati tracciano un profilo preciso del protagonista della storia. Il pittore Franco Guerzoni riconnette Ghirri alle sue radici nell’arte concettuale al seguito di un gruppo di artisti di cui ha fotografato opere e performance, ma anche alla scelta di fotografare a colori e al mestiere di geometra dal quale deriva una certa misurazione dello spazio, l’interesse per le architetture e l’organizzazione in progetti. La sorella Roberta racconta le origini famigliari e introduce il legame del fratello con la pittura originatosi nell’atelier dello zio Walter Iotti (1909-1993), una figura decisiva nella scelta di cominciare a fotografare («Ero affascinato dai suoi quadri fin tanto che provai a creare mie immagini», ivi, p. 301) e dei soggetti da immortalare (le strade di Iotti sono quelle di Ghirri). Lo storico della fotografia Paolo Barbaro contestualizza l’opera ghirriana nel panorama italiano degli anni settanta riconoscendogli un carattere innovativo per la ricerca del e sul territorio come lavoro della memoria, quella collettiva dello spazio esterno e quella individuale del fotografo. Lo stampatore Arrigo Ghi ribadisce l’originalità e il fascino di scatti apparentemente «insignificanti», confermando quella sensazione di stupore davanti al mondo che lo stesso Ghirri esperisce guardando un paesaggio familiare e dato per scontato come se fosse la prima volta. La cognata Elena Borgonzoni rievoca il legame personale e professionale tra il fotografo e la seconda moglie, Paola, esperta di grafica e sua collaboratrice.
Il fotografo Gianni Leone evidenzia il carattere interdisciplinare della fotografia ghirriana che ha il suo culmine nell’ambizioso progetto del 1984 Viaggio in Italia (per Ghirri «qualsiasi fotografia, pezzo musicale, videoclip, film, pubblicità, opera letteraria, cinematografica o artistica, quindi anche pittorica e scultorea, interagisce inevitabilmente con altri linguaggi, nel senso che, più o meno consapevolmente, l’artista o il produttore di questo oggetto ne viene in qualche modo influenzato», Ghirri 2010, p. 7). Lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle pone l’attenzione sulla narrazione per immagini e sul carattere surreale delle foto che lo stesso Ghirri esplicita nella prefazione di Kodachrome scrivendo che «la fotografia è già surreale, sempre, nella sua variazione di scala, nella sovrapposizione di più piani nel suo essere immagine conscia e inconscia del reale cancellato» (Ghirri 1997, 22). Il musicista Massimo Zamboni, ex membro degli CCCP, ricorda la presenza del fotografo in una villa abbandonata nella campagna reggiana durante la registrazione dell’album Epica Etica Etnica Pathos (1990) che ha come copertina un suo celebre scatto. L’artista Davide Benati ritorna sulle influenze pittoriche. La figlia Ilaria termina i racconti orali ritornando alla questione dell’infinito con particolare riferimento alla lavorazione dell’omonima serie del 1974 caratterizzata da 365 fotografie del cielo.
La macchina da presa di Parisini si muove negli ambienti degli intervistati (studi, archivi, case) mostrandoli decorati dalle fotografie di Ghirri. Le interviste si alternano e si sovrappongono a tutte le altre parti del film in cui spiccano i materiali inediti estrapolati dall’Archivio Luigi Ghirri che ha sede a Roncocesi. Delle brevi sequenze mostrano il fotografo intervistato o mentre si sposta con il treppiede nel paesaggio emiliano (strade desolate e sterrate, case crollanti, mostri di cemento) al pari di uno dei suoi «omini sul ciglio del burrone» che consentono di misurare lo spazio o al pari di uno dei personaggi degli amati film del conterraneo Michelangelo Antonioni. A tal proposito, non stupisce che il cast sia costituito quasi interamente da emiliani (Accorsi compreso, in quanto ambasciatore delle bellezze dell’Emilia Romagna; e non stupisce, in questa promozione territoriale, che tra i collaboratori del film compaiano anche delle film commission), una scelta che rimanda all’affiatamento di Ghirri con personalità che condividono lo stesso contesto culturale e geografico, come Gianni Celati, Lucio Dalla, Aldo Rossi, ecc. Infine, incuriosiscono gli spezzoni amatoriali girati dal fotografo con protagonista la figlia più piccola, Adele, messa in posa nel paesaggio padano e ripresa come se la telecamera fosse una macchina fotografica, con inquadratura fissa e profilmico in movimento.
Impossibile riassumere in poco più di un’ora un’intera vita, sfortunatamente breve ma piena. Il film deve necessariamente rinunciare a molte cose che pure possono essere colte da alcuni dettagli: il legame con la musica (Dalla fa capolino in alcuni scatti) e quello con la filosofia (Accorsi legge uno dei riferimenti a Giordano Bruno); l’idea di viaggio nella provincia; la connotazione fantastica del paesaggio contemporaneo che deriva dalla lettura di Dalla fiaba alla fantascienza di Roger Caillois; gli scatti per le copertine degli album di cantautori italiani. Il racconto di Parisini lascia emergere anche quel «dualismo perfetto» che più volte Ghirri ha riconosciuto alla fotografia (negativo e positivo, luce e buio, registrazione e cancellazione) e alla sua ricerca fotografica in un perenne tentativo di conciliare le parti in gioco, non di risolverle: il tutto e il nulla della provincia; l’esterno da fotografare (la storia del luogo) e l’interno del fotografo (la storia personale); l’arte concettuale e il fotoamatorismo; l’antico e il moderno che si innestano nel paesaggio contemporaneo, e così via.
Dunque, ecco chiarito il titolo Infinito: un termine che ricorre insistentemente nei suoi scritti e riassume molte delle sue idee. Infinito è il desiderio di conoscenza che spinge a fotografare. Infinito è un paesaggio non delimitabile dalla cornice della fotografia o dalla temporalità bloccata dello scatto. Infinite sono le identità dei soggetti fotografati di spalle. Infinito è l’orizzonte della pianura che «confonde cielo e terra» (ivi, p. 101), i confini tra paesi e città, ampliando le possibilità di avventura, sorpresa e imprevisto lungo strade che appaiono piatte e senza destinazione.
Il film continua a far vivere il personaggio di Ghirri? Sì, perché si affida alla capacità dell’immagine in movimento di reiterare un’esistenza registrata e lo fa non solo per raccontare la vita di un fotografo ma anche per costruire il suo identikit. Infatti, parole e immagini si sovrappongono per tracciare i tratti identitari del personaggio e renderlo riconoscibile e indelebile nella memoria collettiva. Un’operazione di identificazione che Ghirri ha compiuto proprio con la serie autoritratto Identikit (1976-1979): «Un volto ottenuto attraverso segni diversi frutto di memoria, che attendono in futuro un disvelamento più preciso e dettagliato» (ivi, p. 40).
Riferimenti bibliografici
A. Aprà, Breve ma veridica storia del documentario. Dal cinema del reale alla nonfiction, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2017.
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini, G. Chiaramonte, SEI, Torino 1997.
Id., Lezioni di fotografia, a cura di G. Bizzarri, P. Barbaro, Quodlibet, Macerata 2010.
T. Brown e B. Vidal, a cura di, The Biopic in Contemporary Film Culture, Routledge, New York 2014.
Infinito. L’universo di Luigi Ghirri. Regia: Matteo Parisini; sceneggiatura: Matteo Parisini; montaggio: Matteo Parisini; voce: Stefano Accorsi; fotografia: Luca Nervegna; colonna sonora e sound design: Simonluca Laitempergher; interpreti: Luigi Ghirri, Ilaria Ghirri, Roberta Ghirri, Franco Guerzoni, Davide Benati, Arturo Carlo Quintavalle, Arrigo Ghi, Gianni Leone, Massimo Zamboni; produzione: Ladoc; distribuzione internazionale: Rai Com; origine: Italia; durata: 73′; anno: 2022.