Luca Ferri porta al festival di Berlino, nella sezione Forum, La casa dell’amore, capitolo conclusivo della sua “Trilogia dell’appartamento”, composta da Dulcinea (2018) e Pierino (2018), tre film girati interamente all’interno di ambienti domestici. La casa dell’amore è l’appartamento di Bianca Dolce Miele, quarantacinquenne transessuale che vive a Milano, un luogo buio, dove sembra non filtrare mai la luce, illuminato solo fievolmente dalle candele incastonate in bottiglie vuote di alcolici. La donna si prostituisce all’interno delle mura domestiche, esaudendo i desideri e le fantasie dei clienti. Nonostante questi continuino ad avvicendarsi la casa rimane uno spazio vuoto e inquieto.
La macchina da presa di Ferri filma e scandisce, per una settimana, i momenti della quotidianità della protagonista, l’incontro con i clienti, i riti propiziatori, i preparativi, dal trucco alla depilazione, così come le lunghe chiamate e videochiamate con la fidanzata Natasha, adesso in Brasile, che condivide con Bianca l’appartamento ma che non vede da due anni. In un cinema spesso privo di figure umane, come quello di Ferri, o in cui gli individui vengono resi manichini, l’inserimento di un corpo con determinate specificità come quello della protagonista porta a riconfigurare gli stessi principi estetici e formali che avevano caratterizzato gli altri due film della trilogia.
Dulcinea ad esempio poteva inserirsi all’interno della corrente stilistica dello slow cinema, non categorizzabile come genere cinematografico, dal momento che racchiude e ingloba diverse cinematografie, periodi, intenzioni, cinema narrativo, documentario e sperimentale, su cui si sta concentrando l’attenzione di critici e studiosi negli ultimi anni. Lo “Slow Cinema debate”, come è stato definito, si è originato sulle pagine di «Sight and Sound» nell’estate del 2010 dagli articoli di Nick James e Jonathan Romney. Come nota quest’ultimo, specialmente dagli inizi degli anni 2000, sembrerebbe esserci «tra i cinefili una richiesta di film lenti, poetici e contemplativi che minimizzano la narrazione in favore di un sentimento evocativo e un senso intensificato della temporalità» (Romney 2010, p. 43).
L’aesthetic of slow privilegia la narrazione lenta e non drammatica (se la narrazione è presente); l’utilizzo del piano-sequenza spesso accompagnato da un’inquadratura fissa; un’enfatizzazione dei “tempi morti”, in cui si interrompe la narrazione per lasciar spazio alla contemplazione; la sospensione del flusso diegetico attraverso la rappresentazione dell’immobilità (stillness), la macchina da presa che si sofferma su oggetti, paesaggi e piccoli gesti della quotidianità; la mancanza di dialogo o il silenzio. Attraverso queste scelte e strategie, alcune delle quali riscontrabili nelle sperimentazioni linguistiche e formali del cinema strutturale o concettuale degli anni sessanta e settanta, lo slow cinema riflette sulla pratica contemplativa di visione e sulla percezione della durata cinematografica, invitando lo spettatore a focalizzare la propria attenzione su piccoli dettagli all’interno dell’inquadratura, impercettibili nelle forme convenzionali di narrazione.
Nonostante mantenga un’aderenza all’aesthetic of slow, in particolar modo nella dimensione narrativa, nell’utilizzo del piano-sequenza con inquadratura fissa e nell’enfatizzazione dei “tempi morti”, La casa dell’amore porta ad una riconfigurazione del percorso di ricerca del mezzo cinematografico attuato dal regista bergamasco, una ri-articolazione della struttura a favore della protagonista e del suo vissuto.
Se in Dulcinea i due protagonisti compivano gesti, piuttosto che azioni, schematici in uno spazio pienamente controllato dalla camera 16 mm, all’interno dell’appartamento di Bianca la telecamera digitale del regista si concede un paio di movimenti proprio per seguire e per riposizionare al centro del quadro la donna. Se nel film precedente l’uomo non riesce mai ad afferrare il proprio oggetto del desiderio, l’amore per una donna ideale che non ha mai toccato o frutto della propria immaginazione come per Don Chisciotte, una negazione del contatto fisico resa esplicita dal bordo arrotondato del formato 4:3 che non permette ai lati del quadro di intersecarsi tra di loro, l’atto sessuale in La casa dell’amore risulta compiuto ma ancora molto freddo e distaccato.
Una pratica meccanica, parte della gestualità quotidiana della protagonista che, tuttavia, non comporta un’uniformità delle giornate che si ripetono tutte uguali in ordine cronologico, fino a mostrare dei segni di disagio interiore e infine di esplosione, come poteva accadere in Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (Akerman, 1975). La situazione della donna non viene resa né attraverso uno sguardo patemico né accusatorio. Bianca è libera di muoversi e di agire all’interno del quadro. Ferri rimette in discussione dunque il suo rigore, il suo stesso feticismo.
Oltre ai movimenti di macchina che rompono la fissità e la prigione dell’inquadratura aprendo ad uno spazio di azione, il controllo formale viene ancora una volta a dissolversi nel finale. Mentre Bianca sta organizzando la festa per il ritorno di Natasha l’audio non accompagnerà le immagini, così come l’ultima conversazione che sentiamo tra le due donne viene resa su uno sfondo nero, uno spazio certamente incerto ma anche ricco di speranza, uno spazio vuoto che presto potrebbe essere colmato, portando vita e luce alla casa dell’amore.
https://www.youtube.com/watch?v=3sPmLYPCMRc
Riferimenti bibliografici
G. Gimmelli, Dall’epifania mancata alla macchina del supplizio. Su alcune fi gure nei fi lm di Luca Ferri, «Cinergie– Il cinema e le altre arti», vol. 6, Novembre, 2014.
N. James Nick, Syndromes of a New Century, «Sight and Sound», vol. 20, n. 2, February, 2010.
I. Jaffe, Slow Movies: Countering the Cinema of Action, Wallflower Press, New York 2014.
J. Romney, In Search of Lost Time, «Sight and Sound», vol. 20, n. 2, April, 2010.