Sulle colline Arirang mandami, per favore,
amore mio che mi hai abbandonato.
In questo 2020 nefasto, a pochi giorni dalla dipartita del grande compositore Harold Budd arriva, come un fulmine a ciel sereno, la notizia della morte di Kim Ki-duk. Lascia questo mondo a 59 anni, lontano dalla sua Corea (del Sud) natia, in terra lettone, nel ventennale de L’isola (2000) che gli fece conquistare l’aura mitica di autore e confermò la vitalità del “nuovo cinema coreano”, rivelandolo alle platee occidentali, sedotte sia dalla virulenza action degna della migliore tradizione hongkongese sia dell’immaginario esotico di facile esportabilità e, per questo, di tanto in tanto solleticato dagli stessi registi.
Si potrebbe dire, forse, che morire da esule sia il destino di ogni coreano, dimidiato dalla nascita, perché deprivato della propria metà geografica. Così Kim sembra essere scomparso, ma soltanto a metà, sulla soglia dell’interstizio nero, di una nerezza che fa perdere le coordinate, tanto angoscioso quanto necessario per raccordare due inquadrature e far germogliare del cinema, attraverso un passaggio che flagella lo spirito per far rinascere il corpo. Ed è come essere, ancora una volta, al cospetto del finale di Arirang (2011), in cui il cineasta prendeva commiato dal sé che fino a quel momento aveva incarnato, intonando lo struggente canto, mentre sullo schermo appaiono le immagini dei suoi film e di Kim stesso.
Se la finzione può essere reale, non può valere allora anche il contrario? Perché bianco e nero non possono divenire un unico colore, come si dice in Dream (2008)? Perché non potremo essere ancora una volta ammaliati dalla ripresa trionfale del cineasta, come avvenne quando Pietà (2012) si aggiudicò il Leone d’oro? Certo, per alcuni quello di Kim Ki-duk è stato un cinema della discontinuità, disseminato di passi falsi, autocompiaciuto dalla propria pittoricità, inseguita con fin troppa virulenza e tale da generare, talvolta, dei monstra ingestibili, ombelicali, solipsistici. Ma in alcuni casi, la discontinuità porta invece il contrassegno del coraggio, del desiderio inappagabile di risvegliare un cinema romantico, poetico, palpitante, in cui il gesto e l’espressione, riscoprendo il proprio fondamento giocoso, anelano alla ripetizione sconcertante – la prostituzione sacra (La samaritana, 2004); il volteggio pendulo (L’arco, 2005); le visite al penitenziario (Soffio, 2007) il toc-toc fantasmatico (Arirang) –, così da restare scolpiti nel rettangolo delle meraviglie, pietre preziose tenacemente incastonate che sembrano sfidare l’inesorabile scorrere del tempo.
Il cinema più ispirato di Kim Ki-duk sapeva unire una soave poeticità – da alcuni tacciata di stucchevole e patetico manierismo –, lasciata in eredità da una tradizione più predisposta alla “contemplazione”, e accessi di furiosa violenza iconoclasta senza timore di travolgere le regole del “buon gusto” e, in modo più letterale, le norme apollinee della figuratività: dalla Pietà michelangiolesca, ri-animata per poi essere scaraventata in un mondo insozzato dal sadismo, dall’usura e da smanie incestuose; alla statua muliebre la cui bellezza è offuscata da un reticolato sconquassato da violenti colpi che ambirebbero a infrangerla (Ferro 3 – La casa vuota, 2004).
Chi scrive sente di non essere in grado di separare – come sarebbe auspicabile in sede critica – vita delle opere e vita di quel giovane spettatore che, come il protagonista di Cut (Naderi, 2011), cercava di lenire i malesseri, le delusioni, le ferite proiettando sulla propria pelle nuda quelle immagini cinematografiche, quei film per i quali si è disposti a “fare a pugni”, i soli capaci di recare sollievo. In un attimo è un ricordare gli anni – fervidi e puntellati da una solitudine a tratti vertiginosa – della tarda adolescenza, in cui l’isolamento è sovente una pratica autoimposta che permette di riallacciare i rapporti con il mondo, con un’altra forma di consapevolezza, più distante da quella raggiunta mediante l’esperienza diretta, ma non meno destabilizzante e perentoria.
Un flusso inarrestabile lega il tempo della scoperta di un’opera come Ferro 3 alla nascita dell’interesse per il cinema e le culture dell’Estremo Oriente. Proprio questo film, questo autore, hanno traghettato una generazione di spettatori – che non sarebbero più stati degli “osservatori lontani” – verso altri lidi, sancendo per molti l’inizio della propria educazione cinematografica-sentimentale, attraverso l’esperienza del perturbante, l’incontro con un modo radicalmente diverso, al contempo estraneo e familiare, di fare cinema.
Kim Ki-duk è stato il cantore stonato – il “meticcio” di Address Unknown (2001) – del confine: geografico, storico, esistenziale, cinematografico. Corpo estraneo in patria, dove era spesso presentato come “il regista famoso in Europa”, Kim ha creato le sue opere entro una «dimensione […] dove la favola, l’apologo e il racconto morale finiscono con l’avere la meglio su modalità di rappresentazione più comunemente realistiche» (Morello 2006, p. 54). Da qui la ricorrenza frequente di immagini simboliche e metaforiche che allentano «il nesso tra realtà e finzione» (ibidem). La poeticità si stempera e, al contempo, si infiamma attraverso l’accento melodrammatico che erode il confine tra «pratiche artistiche alte e basse, estetica elitaria e intrattenimento popolare» (Dissanayake 1993, p. 2). Il regista non ha mai cercato requie nel dominio confortevole delle “mezze misure”, preferendo entrare in totale collisione con l’astrattezza dei concetti per filmare le loro effettive, cruente ricadute sui corpi e sondando i limiti della rappresentabilità e della narrazione assumendosi «pienamente i suoi errori ma non prendendosi il tempo per correggerli se non in un altro film» (Gombeaud 2006, p. 37).
A tratti, Kim sembra avere creduto più nel potere dell’immagine che nel processo redentore della realtà che l’immagine potrebbe innescare. Ma persino nell’ora più buia del confronto interiore (Arirang), l’immagine ha di rado divorato il mondo che intendeva rappresentare e, altrettanto raramente, è approdata all’equivalenza di bianco e nero, realtà e finzione, scegliendo di non rinunciare alla propria natura dialogica, alle coloriture polifoniche che trasmutano senza posa un’immagine ora in contrasto ora in comunione con l’altra: il sé con-tro l’altro.
Riferimenti bibliografici
W. Dissanayake, a cura di, Melodrama and Asian Cinema, Cambridge University Press, Cambridge 1993.
A. Gombeaud, Séoul Cinéma. Les origines du nouveau cinéma coréen, L’Harmattan, Paris 2006.
D. Morello, Kim Ki-duk, Cafoscarina, Venezia 2006.
Kim Ki-duk, Bonghwa 1960 – Riga 2020.