Glauco Mauri è morto nella sua casa di Roma per un’improvvisa crisi respiratoria la notte del 28 settembre. Otto giorni prima aveva debuttato con il De profundis da Oscar Wilde al teatro Rossini di Pesaro. È stato il suo testamento. Ricordare Mauri attraverso i successi della sua lunghissima carriera è cosa fredda e convenzionale. Avendolo conosciuto e collaborato con lui non posso farlo. Mi sembrerebbe un tradimento della sua vita in teatro. Preferisco, sull’onda dell’emozione, raccontare la genesi del De profundis, almeno come l’ho vissuta da lontano.

Da molto tempo volevo organizzare un incontro tra gli studenti della Sapienza con la compagnia Mauri Sturno ma per una serie di imprevisti è stato più volte rimandato. Così ho avuto l’opportunità di frequentare Roberto Sturno per cercare di mettere a fuoco la forma da dare a questo incontro. Ci siamo trovati d’accordo che oggi è necessario parlare della pratica teatrale, non tanto sotto il profilo tecnico ma per il suo speciale valore etico ed estetico che nasce dal lavoro artigianale degli attori. L’incontro alla fine l’abbiamo fatto e in quell’occasione Glauco Mauri ha ricordato il dono fattogli da Memo Benassi, la giacca di Oswald che indossava quando la Duse versava le lacrime della signora Alvin sulla spalla del figlio morente, e come, a sua volta, aveva sentito il bisogno di donarla a Sturno il suo compagno d’arte più giovane. Era il segno di una maestria che passava da un attore all’altro in nome della comune passione per il teatro.

Roberto poco dopo mi disse che voleva coinvolgermi in un progetto speciale al MIC e fu spontaneo pensare a un laboratorio articolato sulla pratica del teatro che sviluppasse le suggestioni affiorate nel fugace incontro all’Università̀. Era ovvio chiamarlo Le lacrime della Duse e altrettanto ovvio che l’Università̀ e il Teatro Ateneo dovevano essere il luogo dove due generazioni di attori potevano incontrarsi e riallacciare i fili del tempo nella pratica artigianale del teatro, protetti dagli obblighi produttivi del mercato. La Sapienza con Le lacrime della Duse ha dato il suo contributo facendo incontrare due generazioni alla ricerca di un punto di contatto.

L’ala della morte ha tentato di far naufragare questo progetto con la morte di Roberto Sturno, che ne era l’anima, ma non è riuscita a spegnere la passione teatrale che lo ispirava. Roberto è morto all’alba del 23 settembre dello scorso anno. Era un sabato. Glauco si è precipitato a Tagliacozzo dove l’amico era deceduto. Noi tutti pensavamo che il lunedì successivo non sarebbe venuto al laboratorio e invece si è presentato al Teatro Ateneo. Prima di cominciare, nonostante il dolore che tutti noi intuivamo, con un delicato pudore ci ha detto che per lui era importante essere in teatro e che continuare a lavorare era un modo per ricordare Roberto. Così il lavoro è proseguito e il 27 ottobre è andata in scena al teatro Ateneo la restituzione del laboratorio in 12 scene. Nel programma di sala Mauri aveva scritto ricordando il dono della giacca di Benassi che non si trattava di un dono ma

qualcosa di meraviglioso: un atto d’amore, un trasmettere al futuro di un giovane l’esperienza, la ricchezza umana che il teatro gli aveva donato. E io l’ho passata a Roberto che vive e vivrà sempre dentro di me. Quella giacca ora è tutta nostra e la custodiremo assieme con tanto amore. Il nostro incontrarci qui non è solo “una scuola di recitazione”, no, è un atto d’amore perché anche voi possiate godere tutta l’umanità, la poesia e la bellezza che il teatro può donare. Sono io, abbracciato a Roberto, che vi ringrazio per donarmi la possibilità di essere utile al vostro desiderio di aiutare il teatro ad essere sempre vivo nel cuore degli uomini. Grazie.

Dopo qualche settimana, ho telefonato a Glauco per offrigli la possibilità di proseguire la sua esperienza pedagogica. Pensavo che avendo ridotto i suoi impegni teatrali a onorare gli ultimi scampoli dei contratti stipulati dalla compagnia (come Molière Glauco sentiva la responsabilità di sostenere coloro che lavoravano nella sua compagnia), fosse un modo, come lo fu per Eduardo, di restare attivo. Rifiutò, mi disse che non poteva farcela perché doveva concentrarsi ad elaborare il testo del De profundis di Wilde per farne uno spettacolo. Così con tutta evidenza mi è apparsa la natura del teatro: l’arte della relazione vivente con i fantasmi del passato e con le persone presenti qui e ora. Glauco non si stordiva nel lavoro per dimenticare ma affrontava il suo dolore con le parole di Wilde unendo arte e vita:

[La sofferenza] – è scritto in De profundis – in realtà è una rivelazione. Si scoprono cose mai prima percepite. Ci s’accosta alla storia in tutta la sua complessità, da un nuovo punto di vista. […]

Ora capisco come il dolore, essendo la massima emozione di cui sia capace l’uomo, sia insieme simbolo e pietra di paragone di tutta la grande Arte. L’artista va eternamente cercando un modo d’esistenza in cui corpo e anima siano un tutto unico e indivisibile: in cui l’esteriore sia espressione dell’interiore: in cui la Forma si manifesti.

Non so se questo stralcio sia rimasto nel testo dello spettacolo, purtroppo non ho assistito allo spettacolo di Pesaro. Pensavo di vederlo a Roma ma la sorte non l’ha permesso. Ho cercato nelle cronache locali ma non sono riuscito a farmene un’idea. So solo che Glauco ha tenuto la scena seduto tutto il tempo e non dubito che questo abbia reso la sua presenza ancora più forte. La fragilità del corpo può essere una potente arma al servizio della forma se un attore non la nasconde e la usa. Mauri ne era ben consapevole e infatti nell’articolo di Elisabetta Marsigli del “Corriere Adriatico” dice:

[De profundis] È una lettera di dura verità e di dolcissimo dolore. Poesia, poesia di vita vera, tra le più vere che ho avuto la gioia di incontrare nei miei lunghi anni. Spero sia così anche per voi. È uno spettacolo particolare dove so di correre dei rischi, lo so e di questo ne sono entusiasta perché umilmente convinto di proporre al teatro qualcosa di nuovo.

E aggiunge:

Sarò un pazzo, ma voglio recitarlo da solo. Il primo comandamento di questi miei lunghi anni di carriera è sempre stato quello di fare le cose in cui si crede davvero, anche a costo di rinunce importanti.

Cosi, trecentosessantatre giorni dopo la morte di Roberto Sturno, Mauri va in scena dedicando all’amico il suo lavoro dove vita ed arte si intrecciano senza soluzione di continuità, come del resto è sempre stato nelle imprese della Compagnia Mauri Sturno. È impressionante pensare che la parabola artistica di Glauco Mauri si è chiusa dopo settantotto anni, di cui cinquantadue passati insieme a Roberto Sturno, proprio nella città in cui è cominciata con la filodrammatica di S. Agostino nel piccolo teatro San Nicola ricavato da una chiesa sconsacrata in via Castelfidardo. Dopo lo spettacolo pesarese stremato ma non malato è tornato a Roma e si è spento un anno e sei giorni dopo il suo compagno d’arte avendo trasfigurato la sua pena in una meditazione sul dolore l’arte e l’umiltà.

La vita di Mauri si è compiuta. La sua è stata una morte felice. Dopo la scomparsa di Roberto Sturno con cui aveva un rapporto simbiotico, un dolore terribile lo ha preso. Allora ha risposto nell’unico modo per lui possibile, si è messo a lavorare sul De profundis di Wilde. Il suo lavoro era dedicato a Sturno. È andato in scena otto giorni fa nella città dove era nato, e dove si è chiusa la sua avventura umana e artistica. È tornato a Roma, non era malato solo stanco. Ha dovuto cancellare il debutto romano, ma non sembrava una cosa allarmante. Ieri notte una crisi respiratoria lo ha stroncato ma lui aveva fatto quello che aveva desiderato fare.

Glauco Mauri, Pesaro, 1 ottobre 1930 – Roma, 28 settembre 2024.

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