E così ci ha abbandonato anche Sireno. Era come lo avevo soprannominato per la sua doppia natura, metà umana e metà acquatica. Gaetano Pesce è stato un grande maestro del design italiano, personalmente lo ritengo uno dei più interessanti e originali. Ci eravamo anche simpatici. E con lui ci voleva poco a rimanere affascinati: spiritoso, curioso, spesso sorridente. Era un uomo pure molto bello anche nei suoi settanta quando l’ho conosciuto in quel di Bucarest in cui aveva un gruppo di amici-estimatori che lo voleva lì sempre a ogni occasione possibile, e Gaetano ci andava perché stare con gli amici era chiaramente un valore per lui.

Ma vediamo di mettere le cose in ordine. Innanzitutto Pesce fa parte di quella nouvelle vague del design italiano (anche lui come Ettore Sottsass e molti altri aveva studiato architettura) che tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso si è affermata per originalità. Questi ragazzi che parcheggiavano la lambretta dentro lo studio di Giò Ponti mandavano alla società di massa dei messaggi che erano, come dire, piuttosto ironici. Da una parte ci credono, e come non credere a quel capitalismo fulgido lombardo che fa vendere migliaia di esemplari dei propri oggetti con le relative percentuali, dall’altra vedono il capitalismo come una “cosa”. Non è tutto, non è l’universo, non è il referente assoluto come spesso è nella pop art americana. Ci scherzano con il consumo, ci si fanno delle gran belle risate soprattutto se i loro strampalati prodotti, come si diceva, si vendono. Ho appena scoperto che la famosa poltrona fallica nella casa di Norman Foster nell’arcinoto film di Kubrick è un vero prodotto di design (Herman Makkink ne è autore che viene parecchio prima di Jeff Koons).

In questo contesto ne nascono di cotte e di crude prima a Padova in cui Pesce è animatore del gruppo EnneA, poi a Milano sino alla consacrazione nella famosissima mostra sul design al Moma Italy: The New Domestic Landscape del 1973. Dieci anni dopo Gaetano Pesce si trasferisce a New York e il suo lavoro ha sempre più successo internazionale basti pensare alla grande monografica al Centro Pompidou di Parigi del 1996. Meno male che una volta tanto lo abbiamo celebrato da vivo e vegeto anche noi. Ricordo la bellissima mostra al Maxxi curata da Domitilla Dardi nel 2014. Sono certo molte altre ora seguiranno, ed è giusto che sia conosciuto sempre di più. Per un artista alla fine morire morire è solo un accidente. Sopravvivono e anzi continuano a invadere il mondo le proprie guizzanti idee.

Dicevamo che l’avevo soprannominato Sireno perché tante sue opere – per lui nato sul porto di La Spezia – hanno a che vedere con l’acqua e il mare. Grandi sedie in plastica che invitano a affondare le mani tra questa alghe di bioprene. Oppure scarpe squamose, divani come rocce sommerse, vasi tentacolari e soprattutto le opere da me più amate: i grandi tavoli in resina che hanno i bordi come le coste e le stratificazioni di colori che a volte troviamo nel mare e nei fondali. D’altronde mica inventiamo nulla, basta leggere i nomi dei suoi più famosi oggetti: il divano di poliuterano si chiama Montanara (2009), il tavolo in resina appunto Waterscape (2012), la lampada Briciole in Laguna (2013), il vaso Medusa (2010). Pesce non crea solo oggetti piccoli ma anche grandi oggetti da abitare. Ovviamente, PesceTrullo a Ostuni (2008) o la casa squamosa di Bahia (1999). Questa doppia natura acquatica/terreste, umana/ittica si rivela anche in un altro motivo del nostro autore. Lo strabiliante tema del sotterraneo. Opere fantastiche. Case con un mondo sotterraneo pieno di anfratti, di asperità di sorprese spesso in contrasto con il mondo scatolare della superficie come nella casa a Sorrento (1973).

Evitiamo di etichettare, d’accordo, ma forse potremo ricordare di nuovo che Pesce fu uno dei grandi espositori della mostra Italy: the New Domestic Landscape  che con la cura di Emilio Ambasz  raccoglieva personalità divergenti (Joe Colombo, Ettore Sottsass, Enzo Mari, Beppe Vida, De Pas, D’Urbino, Lomazzi e altri) tutti lontani dalla linea aldorossiana, imperante allora in Italia. Alla tipo-morfologia, Pesce sostituiva la creatività, all’esaltazione della Karl Marx Alee una edonistica accettazione delle opportunità del mondo contemporaneo, al cimitero, luogo nativo del pensiero della Tendenza, la mobilità dell’acqua, il tuffo nel blu di Yves Klein. Pesce scivola sui suoi materiali e vive in un mondo onirico, gioioso, liquido. Abolisce il rigore di una costruzione razionale, per sostituirla con la libertà dell’acqua e della sabbia. Pesce come tutti i grandi creatori, ricrea costantemente lo stesso paesaggio ideale, nel piccolo come nel grande. È una linea mobile, un’orizzonte oscillante tra l’acqua e la terra delle sponde e degli improvvisi anfratti delle linee di galleggiamento.

Forse per capire ancora meglio Gaetano Pesce basta paragonarlo a un altro grande designer italiano anche lui trasferitosi a New York. Quanto Massimo Vignelli cercò sempre il tema della serie e della “perfezione”, quanto per Pesce tutto è necessariamente imperfetto e quindi unico. Al rigore industriale della oggettività e dello standard, si oppone in lui  la soggettività dei desideri del post industriale. Invece, delle affinità profonde ci sono con Frank Owen Gehry. Innanzitutto come tutti sapete Gehry è stato a lungo ossessionato dal Pesce. Ha fatto lampade, ceramiche, edifici, ristoranti a forma di pesce: un’autentica ossessione di cui anche la città di Barcellona è stata vittima felice nella grandissima scultura in maglia di acciaio a forma di Pesce sul suo rinnovato lungomare. “Fish” fu il derisorio soprannome che da ragazzetto povero ebreo gli avevano affibbiato a Toronto e la grande serie di opere della maturità a forma di Pesce ne riscattano l’umiliazione. Anche Gehry ha un sentire subacqueo, sottomarino, ondeggiante. La casa Lewis, opera infinita portata avanti per circa quindici anni, più che a Johnson-Gehry farebbe pensare ad un’opera di Gehry-Pesce. Vanno su strade parallele, ma con intersezioni utili a capire.

Cosa ha inseguito sempre il nostro Gaetano? La stessa cosa che Gehry mi disse rispondendo una volta a una domanda: l’amore, ovviamente! Ed è anche l’unica cosa di cui Gaetano mi ha parlato nei pochi minuti in cui siamo riusciti a salutarci l’ultima volta nel lontano 2014. Lo ha anche scritto d’altronde: «Ho cercato di trasmettere sensazioni di sorpresa, scoperta, femminilità, ottimismo, stimolazione, sensualità generosità, gioia» (2014).

Riferimenti bibliografici
Gaetano Pesce: il tempo della diversità, a cura di D. Dardi, G. Mercurio, Maxxi Electa, Milano 2014.

Gaetano Pesce, La Spezia, 8 novembre 1939 – New York, 3 aprile 2024.

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