Nella storia della sociologia, ci sono figure intellettuali che in una data epoca e una data nazione hanno impersonato la disciplina facendosene emblema e antonomasia. Fu così per Robert K. Merton negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, per Pierre Bourdieu nella Francia post-sessantottina, per Franco Ferrarotti in Italia (1926-2024). La sua produzione intellettuale è stata eccezionale per estensione ed intensità. Mi limiterò qui ad approfondirne un aspetto, quello fondativo, ovvero l’emancipazione della sociologia italiana dal neoidealismo crociano.
Mentre le filosofie ufficiali della cultura italiana si riassumevano nella riforma crociana e gentiliana della dialettica di Hegel e nella scienza della società…oppure si rifugiavano in un vago spiritualismo mistificatore, cui non era certo sufficiente il richiamo alla grande tradizione scolastica a dare sostanza e dignità filosofica originale, a me sembrava in primo luogo urgente ritrovare il piede nella scarpa.
Non era solo una questione di carattere teoretico che mi agitava. Era la consapevolezza che da una soluzione teoretica adeguata di questo problema dipendeva in ultima analisi il senso della nostra vita, ristabilire un rapporto vero con il mondo degli uomini e la sua storia, era per me, nel senso letterale delle parole, una questione di vita o di morte. Come con Socrate la filosofia aveva trovato il proprio fondamento tornando all'uomo, ossia diventando filosofia politica e mettendo in discussione il regime, così l'esigenza sociologica mi appariva come lo strumento razionale per la ripresa di un dialogo interindividuale in un mondo senza miti.
Questo brano di Filosofia e Ricerca Sociale (Ferrarotti 2018) riassume l’utopia di un giovane filosofo che ebbe la pretesa di sociologizzare la società italiana e la sua accademia. Di costruire, husserlianamente, un senso filosofico, scientifico e umanistico ancorato all’esperienza immanente degli individui, alle loro condizioni di vita storicamente determinate. Utopia, megalomania, certo. Ma provviste di potenza creatrice.
La vicenda di Ferrarotti è difatti percorsa da un’infaticabile determinazione. S’iscrive alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Torino nel 1944. Dal 1942 al 1948 lavora come traduttore per Einaudi, stringendo un legame intenso con l’“amico speciale” Cesare Pavese e con Felice Balbo. Sarà lo stesso Pavese a commissionargli la traduzione de La Teoria della Classe Agiata di Thorstein Veblen. Tutto ciò in un’epoca di incredibile fervore culturale, un tempo nel quale sono spesso i letterati (Pasolini, Calvino, Ginzburg, lo stesso Pavese) a fare le veci dei sociologi – non senza conflitti e incomprensioni reciproche. Sarà proprio la pubblicazione del testo di Veblen (4 gennaio 1949) ad assicurare a Ferrarotti una stroncatura da Benedetto Croce (15 gennaio 1949). Un incidente di percorso che garantirà al giovane piemontese un’insperata visibilità. Tale evento è spesso citato come mito fondativo della sociologia italiana. Ferrarotti, infatti, replicò a Croce e al suo “metafisicismo presuntuoso”, sostenendo come «è fin troppo chiaro che i fatti continuano a premere e a irrompere da ogni parte, sconvolgendone i piani idealmente composti e romanticamente ottimistici» dei filosofi (Ferrarotti 1949).
In realtà, altre trasformazioni (accademiche e non) erano già in corso, come conseguenza della democratizzazione della società, dell’industrializzazione e del boom economico. Si possono citare al riguardo la trasformazione della cattedra di Storia delle dottrine politiche di Camillo Pellizzi in Sociologia presso l’università di Firenze, l’inaugurazione dell’Istituto Sturzo a Roma (1951), la pubblicazione di Aut Aut a opera di Enzo Paci (1951), la nascita di Editori Riuniti (1953) organo editoriale che andava a coprire un interesse editoriale del PCI per la sociologia e la politologia. Infine, la parabola del movimento di Comunità di Adriano Olivetti, dell’omonima rivista e dell’omonima casa editrice. Politica, filosofia, sociologia, enti culturali e morali dialogano con una profondità e una ricchezza irripetibili.
Ferrarotti è uno dei protagonisti di questo dibattito. Rifiutato dal neocrociano Augusto Guzzo, si laurea con Nicola Abbagnano, con cui stringe un rapporto strettissimo di collaborazione intellettuale. Nel 1951 fondano i Quaderni di Sociologia. Dal primo numero, la rivista presenta un programma dettagliato per la fondazione della sociologia in Italia, come scienza dello sviluppo e della trasformazione sociale. Ferrarotti e Abbagnano ambiscono a fornire una nuova comprensione fenomenologica ed esistenziale dei fenomeni, ma anche a fornire una direzione allo sviluppo della società italiana:
L'esigenza della fondazione della sociologia come scienza significava per me in quegli anni…il bisogno, filosofico e umano, di incontrare il mondo degli uomini, ossia il mondo reale delle persone, reali, con tutta la sua ricchezza di rapporti pluridimensionali, conflittuali o armonici, complementari o contraddittori, essenzialmente fluidi, in ogni caso non esattamente prevedibili, e per questo dotati di una loro specifica tensione drammatica. (Ferrarotti 2018).
Tale utopia non nasce dal nulla, ma da una precisa esperienza professionale ed umana: quella di assistente personale di Adriano Olivetti. Dal 1949 al 1950, Ferrarotti si fa infatti assumere come operaio per osservare in prima persona le condizioni di vita dei lavoratori dello stabilimento di Ivrea. Negli anni a venire, collaborerà con Olivetti alla creazione di un modello aziendale fondato sul benessere e le relazioni di comunità. Da tale esperienza manifesterà l’esigenza di considerare le imprese industriali non più come meri attori economici, ma come i principali detentori di una nuova forma di potere e di legittimazione:
Ciò che va tenuto presente e sottolineato è la crescente importanza della grande azienda come realtà sociale e politica, vale a dire come locus del potere reale e centro di decisioni che, con la loro logica, travalicano il piano tecnico o meramente amministrativo e acquistano significato chiaramente politico. [..] Le aziende, anche laddove siano ancora considerate puri e semplici domicili privati, svolgono un ruolo pubblico, nel senso che le loro decisioni e il loro andamento coinvolgono, talvolta, il destino di migliaia di individui e di centinaia di famiglie. Per converso, l'individuo si trova a dover affrontare, per conseguire i suoi scopi privati, responsabilità e compiti che cadono al di là delle sue possibilità concrete come individuo e che possono in realtà venire fronteggiati efficacemente solo a livello della struttura sociale meta individuale. (Ferrarotti 1966).
Ferrarotti importa in Italia una critica alla tecnocrazia e alla privatizzazione del potere che erano già presenti nella sociologia critica americana del tempo (per esempio nella riflessione di Charles Wright Mills degli anni Cinquanta). Ma anticipa anche di molto la riflessione a venire sulla capillarità e la differenziazione delle forme di potere nelle società del rischio e del capitalismo di rete. Non è la mera consapevolezza di un processo, quanto piuttosto una ricercata presa di posizione. Non ci può infatti essere sociologia critica che non sostenga in prima linea un impegno sociale e civile verso una giustizia sociale normativamente orientata: «se non toccherà al sociologo di farsi latore «in nome della scienza» di norme irrefutabili e assolute, il suo partecipare della società stessa che analizza rende inevitabile e necessario un impegno sociale e civile» (Ferrarotti 1968).
Riferimenti bibliografici
F. Ferrarotti, Qui il traduttore di un onesto libro difende l’opera da lui curata dai travisamenti dell’illustre vegliardo don Benedetto Croce, filosofo, Milano Sera, 7 febbraio 1949.
F. Ferrarotti, Sociologia del Lavoro in AA.VV., Questioni di Sociologia, Firenze, Ed La Scuola, 1966.
F. Ferrarotti, Trattato di Sociologia., Torino, UTET, 1968.
F. Ferrarotti, Filosofia e Ricerca Sociale, Chieti, Solfanelli, 2018.