Avevo poco più di diciotto anni quando conobbi Alessandro Dal Lago, ed era la fine degli anni ottanta. Ero una matricola alla facoltà di Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano e Dal Lago lo incontrai per la prima volta come esaminatore di Sociologia generale: era giovane e ancora a inizio carriera. Io, uno studentello un poco smarrito, arrivato nella grande città dal Sud più o meno profondo. L’esame andò bene, fino a un certo punto, fino a quando Dal Lago non mi chiese de Le forme elementari della vita religiosa di Emile Durkheim. Avevo studiato l’argomento, ma frettolosamente e senza averne colto l’articolata ricchezza. Improvvisai una risposta, disturbato da qualche gocciolina di sudore freddo, che portò il pensiero del povero sociologo francese verso fragili quanto fantasiosi orizzonti. Ci mancò poco che il giovane ricercatore Dal Lago mi mandasse a casa, con quello sguardo severo che poi ho conosciuto tipico, che però faceva intravvedere una qualche dolcezza. Pur avendo portato a casa l’esame, mi sentii mancante, ingrato verso qualcosa di indefinibile, che poi sarebbe stata parte importante della mia vita. Dopo questa esperienza mi misi a studiare Le forme. Seriamente, non per superare un esame. Una sfida che raccolsi in quello sguardo.
Tecnicamente, Dal Lago è stato un sociologo della cultura. Settore scientifico disciplinare SPS/08, come vogliono le aride tabelle ministeriali; ma Dal Lago non era studioso che si lasciasse ingabbiare: troppa la sua spinta a spaziare, a sconfinare da quegli orti per praticare la sociologia secondo un metodo che, pur ben radicato nella tradizione, aspirasse a confrontarsi con l’antropologia, con la filosofia e con tutto quanto di interessante si presentasse al suo arrovellamento intellettuale. Aspirava, soprattutto, a costruire nuove cornici interpretative della società, a proporre concetti per guardarne i fenomeni come di sbieco rispetto agli sguardi consolidati. Insomma, Dal Lago era un sociologo di quelli bravi, che lasciano il segno, coscienti che questo mestiere non si esaurisce nella contabilità descrittiva della società o nell’adesione all’eleganza asfittica di un metodo; che abbia il dovere di gettare, di volta in volta, nuova luce su fenomeni che cambiano insieme agli sguardi che su di essi si posano.
Un sociologo che ormai appartiene alla tradizione, come Robert Nisbet, sideralmente lontano da Dal Lago per tante caratteristiche, metteva in guardia dalla deriva a cui erano esposte le scienze sociali nella seconda metà del Novecento: quel ridursi a sapere metodico e catalogatorio, incapace di confrontarsi con la creatività basata sull’intuizione; deriva che avrebbe ridimensionato «il pensiero teorico dai processi della ricerca scientifica». E come i sociologi coscienti di questo rischio – non tantissimi in verità – , Dal Lago temeva una sociologia che replicasse sé stessa a partire da un metodo codificato; la sua sociologia era, anzi è, piuttosto orientata a produrre salti salutari di ordine concettuale, teorico. Ma forte della tradizione.
L’attenzione alla tradizione, il rigore nel curare le radici (io stesso ne ero stato testimone da incauto studentello al primo anno) emerge nella ricca attività di commentatore e autore di introduzioni del pensiero dei classici, di quello sociologico, ma anche filosofico e antropologico, anche qui mostrando una forte spinta transdisciplinare. Del pensiero di Georg Simmel, per esempio, ha scritto importanti introduzioni; in particolare, affrontando il pensiero di questo “anti-positivista”, ha messo in luce il carattere eccentrico rispetto alla sua epoca, quel non stare tra le righe di quel Novecento agli albori che prediligeva le letture sistematiche della società, l’adesione alla cultura scientifica di stampo positivista oppure a quella di stampo idealista:
Il tipo ideale di pensatore chiamato dal suo dèmone alla ricerca della totalità, ma che ne scopre e rivela coerentemente l’impraticabilità, è forse costituito da Simmel. Essendo stato estraneo sia alla filosofia scientifica sia ai tentativi di rifondazione metafisica che caratterizzano il primo Novecento, non stupisce che il suo ruolo, nella storiografia filosofica contemporanea, appaia complessivamente trascurabile. Ai contemporanei egli sembrava già una figura inafferrabile, volta per volta il più grande pensatore della crisi o un ciarlatano, un esteta apolitico o un pensatore tragico, un irrazionalista o un fondatore a pieno titolo della sociologia. […] Come denaro contante, la sua eredità è stata in seguito contesa da seguaci, critici, glossatori e curiosi, ognuno dei quali ha sempre preteso di mettere le mani sull’intero lascito (Dal Lago 1985).
Approccio analogo, e attento a cogliere i nessi con la ricerca sociologica, ha usato per Hans Jonas, Hannah Arendt e anche Michel Foucault. Jonas e Arendt erano, per lui, i rappresentanti di una filosofia nuova, che si era allontanata da quella tensione alla speculazione astratta tipica della filosofia allora appena precedente, come per esempio quella di Martin Heidegger, per immergere il loro strumentario concettuale nelle cose del mondo. Entrambi, Jonas e Arendt, erano interessati a indagare, pur su crinali differenti, la questione della responsabilità sul passato e sul futuro immediato di un’Europa e di un mondo che aveva bisogno di riflettere proprio sul concetto di responsabilità. Un pensiero che in questo modo poteva ben dialogare con le scienze sociali, facendo così emergere proficue possibilità di riarticolazione.
Dal Lago era mosso alla ricerca da una forte curiosità sociologica, che lo portava a spaziare tra campi assai diversi, dalla produzione letteraria alla devianza e alla produzione delle marginalità e delle esclusioni, dal tifo calcistico alla guerra e alle espressioni artistiche soprattutto di carattere pop. E poi l’interesse per la politica, le sorti della sinistra, l’avvento dei populismi, attività che lo ha fatto uscire dal campo accademico come editorialista per un quarantennio del quotidiano Il Manifesto. A questo, bisogna aggiungere l’impegno di riflessione sui metodi, a partire dall’indagine etnografica ed etnometodologica che lo ha accompagnato durante tutto il suo percorso. Soprattutto, il suo era un metodo orientato criticamente. Approccio tipico di un pensiero che non si accontenta di sottolineare il presente, lo stato del suo livello intellettuale, ma che va oltre, guardando le cose da angolature prima non praticate, anticipando quindi i tempi. Sociologi come Dal Lago non possono che farsi promotori di un pensiero capace di diradare le nebbie che si allungano nel futuro.
Come sintesi di tutte queste caratteristiche, mi soffermo, seppur brevemente, su Non persone, uscito ormai più di un ventennio fa (era il 1999) e con il quale ha anticipato, e di molto, le trasformazioni di atteggiamento degli italiani e non solo rispetto all’intensificazione del fenomeno migratorio, fornendo quelle categorie che, allora sconosciute, avrebbero alimentato il successivo dibattuto intellettuale. Soprattutto, si tratta di un esempio in cui la sociologia mostra la massima capacità critica e analitica, che consiste in un volgere di sguardo: dal fenomeno osservabile, stigmatizzabile, a chi ne produce dialogicamente le caratteristiche, quella società impaurita di fronte a quei flussi, che vede i propri strumenti di civiltà regredire, venire meno di fronte alla paura di perdere consolidati privilegi. Paura che diventa strumento di controllo, di ordine, di amministrazione del potere. Dispositivo politico e derive securitarie:
L’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto. Grazie a meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti, l’umanità viene divisa tra persone e non-persone.
Da sociologo dei processi culturali, etichetta che lui stesso in una sua beve biografia definisce astrusa, si è occupato di letteratura. E, tra le altre cose, lo ha fatto entrando come fulmine a ciel sereno a rompere quella relazione incantata tra gli italiani e Roberto Saviano. È del 2010 Eroi di carta, dove svela come la pubblicazione di Gomorra, e quello che ne è seguito, sia stata una operazione volta a costruire un eroe patrio (ecco all’opera ancora una volta quel volgere lo sguardo così importante per la sociologia), secondo gli schemi di un vero e proprio “blockbuster morale”; un eroe di carta che diviene strumento per esorcizzare le colpe e le paure di un paese. Ne viene anche neutralizzato il pericolo delle mafie che, inglobate nelle più larghe dinamiche capitalistiche, vengono allontanate dalla coscienza, quindi dalle immediate responsabilità e connivenze.
Questi due contributi, esempi tra tanti altri, mostrano come il sociologo dei processi culturali entri nel vivo del dibattito pubblico, fornendo strumenti anche capaci di orientarlo ma soprattutto di sospendere il dato per scontato – da qui l’acume critico di una sociologia a tutto campo di Dal Lago – vale a dire quella coperta culturale sotto la quale possono soggiacere processi invisibili o invisibilizzati, questioni non dette e a volte indicibili. Sono tante le torsioni intellettuali che negli ultimi anni sono state usate per definire un carattere pubblico, quindi legittimante, della sociologia. Ritengo che quello messo in atto da Alessandro Dal Lago possa essere di esempio e che non servano altre giustificazioni o fonti di legittimazione.
Riferimenti bibliografici
A. Dal Lago, Il politeismo moderno. Saggi sul pensiero del confitto, IPOC, Milano 1985.
Id., Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999.
Id., Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma 2010.
R. Nisbet, Sociologia e arte, Mimesis, Milano 2016.
Alessandro Dal Lago, Roma 1947 – Trapani 2022.