Invelle in dialetto marchigiano vuol dire “in nessun luogo”. Il titolo scelto da Simone Massi per il suo primo lungometraggio starebbe ad indicare la marginalità dei territori di cui parla, da cui egli stesso produce i suoi disegni: la campagna marchigiana, chiusa nei confini di piccole comunità vicine ma lontane dal mare, consapevoli e determinate nel vivere in una bolla avulsa dallo scenario contemporaneo.
In questo caso però, poiché Massi si confronta per la prima volta in modo esplicito (e meno simbolico) con il racconto storico – il film narra di tre generazioni di una stessa famiglia attraverso gli occhi di tre bambini: una vissuta agli sgoccioli della Prima guerra mondiale, l’altra dopo la Seconda, il terzo durante gli anni di piombo – sarebbe forse stato più appropriato parlare di “nessun tempo”. Questo perché Massi sembra dirci attraverso i suoi disegni che, almeno entro i confini della storia (rigorosamente con la “s” minuscola) che vuole raccontarci, il tempo passa ma sembra non passare mai, collocando la narrazione di conseguenza in una temporalità priva di evoluzione che ripete gli stessi schemi di decennio in decennio finendo per collocarsi dentro una dimensione atemporale, in cui non conta più molto in che anno siamo e cosa sta accadendo oltre le colline.
Se da una parte questo sembra voluto – è la stessa tecnica dell’animazione di Massi a farci riflettere da anni sulla potenza di un tempo lento, sedimentato, coltivato con una pazienza fuori dal comune e noncurante del ritmo “urbano” che condiziona la vita al di fuori della “bolla” – dall’altra è probabilmente un effetto indesiderato del suo film. Parlare della sua terra (della sua storia, del suo tempo) in termini detrattivi (in-velle) vorrebbe essere nella sua intenzione una denuncia – parlare da un punto di vista di norma omesso, quello dei cosiddetti “dimenticati”, per dirla con Deleuze e Guattari i «minori» – e invece si rivela essere una condanna.
Il racconto fatica a decollare precisamente a causa della natura “negativa” da cui nasce. Stabilire e difendere una marginalità può essere un atto rivoluzionario o anche, ed è questo il caso, profondamente conservatore. Quello di marginalità è forse anzi uno dei concetti più facilmente ribaltabili dal punto di vista teorico: viene utilizzato per rappresentare mondi utopici, privi di sovrastrutture e dunque «in potenza», per riprendere ancora Per una letteratura minore, capaci di essere ancora tutto, di trasformarsi, di invertire le direzioni, di combattere la normatività vigente; ma può anche indicare qualcosa che, “messa ai margini”, soffre di una condizione di mancanza di contatto con i centri nevralgici della vita e tende così a diventare, unica strada rimasta, autoreferenziale.
È precisamente questo riferimento non tanto all’autore (anzi qui sono presenti meno elementi autobiografici rispetto ad altri suoi lavori) quanto alla propria poetica del rurale, dell’antico, della tradizione, del “sempre uguale” a rendere questa volta la spirale dell’animazione di Massi – intendiamoci, espressivamente sempre straordinaria – incapace di guardare al di fuori di sé e, dunque, inabile a raccontare davvero un luogo e un tempo precisi. In altre parole, guardare alla Storia con la “s” maiuscola – in questo caso un attraversamento del Novecento per giunta non particolarmente originale – ha bisogno di chiare radici nel presente. È cioè necessario che lo sguardo sul passato si «fonda», direbbe Gadamer, con quello sul presente per poter dirci qualcosa, essere ancora eloquente, vestire un nuovo abito ai nostri occhi che ci faccia scoprire qualcosa che non potevamo capire prima di oggi.
Ma se questo presente, il luogo fisico a cui esso si àncora, viene descritto dall’autore sin dal titolo come “nessuno”, è come se in qualche modo Massi togliesse l’opera dalla responsabilità dell’oggi e, paradossalmente, scegliesse di partire da un territorio piccolo e fortemente localizzato – tutto il film è in dialetto stretto, ad esempio –, per rinnegare la sua specificità. E rinnegarla vuol dire innanzi tutto precluderlo ad un’apertura sul contemporaneo che aiuterebbe anche una più sagace e innovativa lettura di epoche già trascorse.
Tra l’altro esiste una dissonanza intrinseca tra il tratto pertinente più evidente e sorprendente delle forme animate dell’artista – ovvero la loro natura metamorfica, vissuta da una corrente di energia che recalcitra di fronte agli stacchi di montaggio e trasforma ogni creatura, animata o inanimata, in qualcosa di completamente diverso da sé – e la risultante staticità della dinamica narrativa di cui si diceva. Forse potremmo dire persino che se i disegni di Massi fossero meno “in movimento”, ci renderemmo meno conto di quanto il loro incedere non si misuri mai davvero con immaginari (tempi, spazi) diversi da quelli entro cui nascono.
L’elemento che al contrario sfonda il piano visivo e quindi, in qualche maniera, si svincola dalla circolarità chiusa del racconto, è il piano sonoro, in questo film – molto di più che nelle opere precedenti – tanto importante quanto quello rappresentativo. Non solo l’utilizzo di voci appropriate per i personaggi, tutte molto riconoscibili e talentuose (Marco Baliani, Ascanio Celestini, Mimmo Cuticchio, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini, Toni Servillo, Filippo Timi), ma anche i suoni puri, creati da Stefano Sasso e Riccardo Studer, lavorano sulle immagini dandogli profondità, spessore materico e, potremmo dire persino, temporale.
Come se la “quarta dimensione” del tempo, quello che i soli disegni aggirano senza mai centrare, venisse ascritta in questo caso a paste sonore calde e “sporche”, mai davvero sincronizzate con le figure, che danno vita ad un mondo a parte da cui nutrono di realismo il moto visionario delle forme – a maggior ragione, poi, quando Massi utilizza le voci di veri testimoni dell’epoca o archivi sonori (radiofonici, televisivi) che raccontano gli eventi.
La voce e la ricostruzione più in generale dei suoni della vita quotidiana risultano così gli elementi diegetici più radicati nel humus che sorregge la storia e al contempo quelli più disponibili ad una apertura verso un tempo diverso, anche un tempo che possa intercettare la sensibilità presente. Questi si, davvero e secondo un’accezione positiva, lavorando da un “altrove” rispetto all’immagine, senza nome e non collocabile in un luogo preciso.
Invelle. Regia: Simone Massi; sceneggiatura: Simone Massi, Anne Paschetta, Alessio Torino, Luca Briasco, Julia Gromskaya, Nello Massi, Assunta Ceccarani; montaggio: Simone Massi, Lola Capote Ortiz, Alberto Girotto; musiche: Lorenzo Danesin; suono: Stefano Sasso, Riccardo Studer; voci: Marco Baliani, Ascanio Celestini, Mimmo Cuticchio, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini, Achille Massi, Gemma Massi, Toni Servillo, Filippo Timi; produzione: Minimum Fax Media, RAI Kids, Amka Films, Radio Televisione Svizzera; origine: Italia, Svizzera; durata: 90′; anno: 2024.