A chi, come chi scrive, è capitato di poter rileggere, all’indomani della sua morte (Ferentillo, 7 agosto 2023), le pagine di Mario Tronti tutte insieme e tutte d’un fiato, può sembrare di cogliere, al di là di enigmatiche dissonanze, sorprendenti coerenze e compattezze. Certo: a distanza si perde qualcosa, molto. Soprattutto, si perde quella specificità della lotta operaia tra anni cinquanta e settanta che, a chi (forse non tutti) è nato e cresciuto nell’epoca «della politica al tramonto», rimane per molti versi (forse, di nuovo, non tutti) qualcosa d’estraneo. «Chi non ha vissuto questo tempo manca di qualcosa» (Tronti 1998 p. 155). E in questo difetto tocca stare, ad almeno due generazioni di distanza. È pur vero però che, guardate troppo da vicino, le linee e le geometrie di un quadro di pensiero e d’azione rischiano di sfocarsi, financo scomporsi, ridotte a pigmenti disgregati. Ipermetropia della contemporaneità.

Excusatio non petita, avanzo quindi un’ipotesi dalla distanza: Variatio e non contraddizione, esercitata su temi, parole d’ordine, formule la cui brevitas affonda come un coltello nella carne del testo, versandone il sangue rosso sul foglio. Sempre le stesse, e sempre nuove. Variazione grande delle cose, e dunque scandalosa virtù machiavelliana del riscontro tra parole e cose. Brachilogia della rivoluzione: serie d’ellissi per cogliere il punto, per giungere al deittico «ecco», eco evangelica e nietzschiana del latino ecce (homo) – passione di classe, genitivo soggettivo e oggettivo.

Nel Protagora (334 C–335 C) platonico Socrate fa la parte dello smemorato. Invita il sofista a trattarlo come un sordo col quale, per farsi comprendere, è necessario alzare la voce, e a formulare cortesemente risposte concise e chiare. Si tratta di un incontro d’anime, che Socrate cerca d’istituire e di stabilire attraverso il discorso breve, convergenza nel disaccordo. «Con Carl Schmitt: in divergente accordo. Con Karl Marx in convergente disaccordo. Questo», scrive Tronti, «è l’interno sentire del teorico della politica, figlio del movimento operaio» (Tronti 1998 p. 153). A fine Novecento, «dopo la sconfitta della rivoluzione» (ibidem), si tratterà per Tronti di questo: riflettere, ancora una volta, sulle occasioni mancate; ripercorrere di nuovo un esperimento incompiuto; rompere, ora come allora (gli anni sessanta), schemi e ortodossie; tagliare nodi gordiani ripartendo di volta in volta «dall’estremo possibile». Arrestarsi nella contraddizione del moderno, al crocevia tra genealogia del politico e genealogia dell’economico, per ricominciare, per combattere, per «fargliela pagare» (Roggero 2023).

Breve discorso dunque, brachýs lógos, rivolto a un marxismo smemorato e sordo, dimentico della sua appartenenza a un parte, del suo essere «punto di vista parziale non individuale» – di classe, non di «popolo» (Tronti 1998, p. 75). O anche, come il Protagora platonico, sofisticamente impegnato in lunghi monologhi, in cui lo spazio della politica è ridotto a «gare di discorsi» (Protagora 335 A). Un movimento operaio competitivo ma non antagonistico dunque, incapace, al suo interno, di un’interlocuzione volta alla verifica del proprio sapere: di progredire in esso, di produrre scienza della parte, machiavelliana verità effettuale «del movimento politico» della classe operaia. E, all’esterno, verso un pensiero e una prassi rivoluzionarie fallimentari, incapaci di scagliare questa loro verità sinistra contro il nemico, a piegare «con la forza soggettiva dell’organizzazione» le leggi economiche «a brutalmente servire», come professato in Operai e capitale (Tronti 1971, p. 223), «i bisogni rivoluzionari oggettivi dell’antagonismo e della lotta». Nella e per la lotta, declinazione rivoluzionaria del circolo della volpiano della scienza, del concreto che torna in se stesso, attraversando l’astratto. Un esterno definito perciò solo dalla e nella lotta stessa, dal duale politico, dal contro che articola il dentro, che spezza l’unità omogenea e totalizzante del mondo capitalistico-borghese delle merci, della democratica subordinazione del politico all’economico, della rappresentanza borghese di equivalenti, della società divenuta fabbrica.

Dentrocontro come brachilogico esempio di variatio e brevitas allora, linea di fuga – e «di condotta» – ininterrotta, costante del variabile pensiero trontiano. Ma, soprattutto, appropriazione antagonistica della geometrica «paura del due», sulla quale il dispositivo economico ha potuto ereggere un secolo di stabilizzazione capitalistica del sistema e neutralizzazione del «ciclo politico». Una «pace dei cento anni» (1815-1914), come la chiama Tronti sulla scia di Polanyi (Tronti 1998, p. 19), di cui lo stesso Marx non ha saputo riconoscere la natura d’interregno: tra due transizioni, al e dal capitalismo. Da qui per Tronti una serie di problemi inevasi e di contromisure non prese. Di occasioni mancate, tutte concernenti il rapporto tra politico ed economico, politico e sociale, politica e storia, «società capitalistica e storia moderna». Da qui quella «illusione ottica» in virtù della quale «ci siamo tutti felicemente sbagliati». Ovvero credere di essere ancora dentro, e anzi esserne, finalmente, ridiscesi al fondo, dell’«età vera e propria della politica».

Tirare le somme: Sisyphusarbeit. «Tra anni dieci e anni sessanta, 1914-56, società capitalistica e storia moderna hanno vissuto un rapporto critico, di differenza, di contraddizione e di conflitto»(ivi, p. 12). E cultura della crisi: «La nostra assunzione dell’autonomia del politico ha avuto su di sé la “sfortuna” machiavelliana. La sua assunzione teorica ha coinciso con la sua inapplicabilità pratica. Dopo gli anni sessanta, non si è dato più stato d’eccezione» (ivi, p. 71s). Colori della sconfitta: «Il rosso all’orizzonte c’era: solo che non erano i bagliori dell’aurora, ma del crepuscolo. Alla fine degli anni sessanta il tramonto dell’occidente si è compiuto. Dopo, viene il piccolo Novecento» (ivi, p. 23s). Eccetera.

In un post penetrante e, bisogna dire, commovente, Augusto Illuminati è riuscito a cogliere, con brachilogica asciuttezza, il «fuoco» paradossale di una coerente contraddizione: una sorta di lunghissima e sottilissima incrinatura nel blocco marmoreo di vita e scrittura di Tronti – il «fallimento» di un’abiura, un implicito rifiuto del rifiuto. E dunque affermazione e rivendicazione delle origini operaiste, nolens volens: «[…] anche il Tronti disfatto e ratzingeriano degli ultimi scritti conservava il fuoco e il piglio popolare degli anni giovanili, quasi avesse fallito l’autosconfessione e il materiale incandescente che aveva riversato sulle lotte degli anni ’60 fosse ancora vivo e attivo, contro la teorizzazione del tramonto della politica e la sua stessa concezione dell’autonomia del politico».

Si può forse aggiungere che a leggerlo tutto insieme, oggi, non è tanto o solo il tentativo fallito di una «autosconfessione» che emerge, bensì il costante rivolgimento dello sguardo, certo non privo d’ambiguità, dal Vorwärts (in avanti) operaista al Rückwärts (a ritroso) teologico-politico. Quasi una “rottura epistemologica” tra gli inizi – dai »Quaderni rossi» a «classe operaia» – e quanto è seguito. Una rottura che, bisogna ammetterlo, ha spesso – soprattutto dallo ‘89 in poi – il retrogusto di una pulsione di morte, sublimata e superata nel pathos della scrittura e della politica, della scrittura politica. «Anticipare vuol dire pensare, vedere più cose in una, vederle in sviluppo, guardare tutto, con occhi teorici, dal punto di vista della propria classe. Seguire vuol dire agire, muoversi al livello reale dei rapporti sociali, misurare lo stato materiale delle forze presenti, cogliere il momento, qui e ora, per afferrare l’iniziativa della lotta.» Tuttavia, dopo Operai e capitale pare chiudersi lo spazio per l’«anticipazione» (Tronti 1971, p. 17) – ridischiuso, più tardi, solamente nello sguardo profetico e apocalittico. In cambio, «ermeneutica tragica del moderno», séguito come progressiva resa dei conti con il fallimento, come Kritik der Zeit. Per misurare, appunto, lo stato materiale – e spirituale – delle forze presenti.

Congedandosi dall’attività d’insegnamento presso l’Università degli Studi di Siena, nel 2006 Tronti si sofferma sulla capacità che tale ermeneutica tragica mette in campo per parlare di ciò che manca ed è, al contempo, di là da venire: «Nella miseria del linguaggio politico contemporaneo, cerco altri modi di dire le grandi cose. E allora leggo così passione e morte, e anche attesa, speranza, volontà di resurrezione di uno spirito rivoluzionario» (Tronti 2017, p.571). Eppure, scrivendo di Raniero Panzieri, con lo sguardo rivolto rückwärts, verso gli inizi: «Mi viene in mente, mentre scrivo queste cose, che il linguaggio di allora era più innovativo, più creativo. È che la storia, in questi decenni dagli anni sessanta ad oggi, ha fatto grandi passi all’indietro, e ci costringe, nostro malgrado, al recupero delle tradizioni» (Tronti 2017, p. 599). D’altro canto, in un’intervista rilasciata nello stesso anno a Ida Dominijanni per «il manifesto», Tronti stilizza quegli «inizi» tra anni sessanta e settanta, affermandone non solo la carica innovatrice ma anche il carattere tipologico (Dominijanni/Tronti 2023). Tronti concepisce qui un vero e proprio «stile operaista», forma e pratica «di pensiero politico perturbante, irriducibile a scuole e tradizioni». A tale stile corrispondevano, allora, una scrittura «battente come il ritmo della fabbrica» e una sorta di «stato d’eccezione intellettuale permanente». Discorsi brevi insomma – per essere chiari, efficaci, effettuali. Ma prolungati, per giorni e notti intere. Per anni. Dialoghi generatori di un’autentica synousia, della «esperienza di pensiero e di pratica di un gruppo di persone di straordinaria qualità umana e politica, che si muovevano in divergente accordo, cementate da un legame di amicizia indissolubile».

Ma lo stile, si sa, può degenerare in maniera. E il pericolo è tanto più forte quanto travolgente è stata la rottura originaria, il rinnovamento delle forme degli inizi. Forse bisogna allora, ancora una volta, compiere il gesto machiavelliano, ridurre ai principi. Non per imprigionare in una casella, come Tronti (ironicamente) lamentava a proposito del suo “successo giovanile”. Né, quindi, per sconfessare il séguito. Ma per anticipare, con brachýs lógos, la qualità dei tempi. Per essere efficaci. E così riconoscere la variatio e la brevitas di una vita, una lotta e un pensiero lunghissimi.

Riferimenti bibliografici
I. Dominijanni, Fuori norma. Lo “stile” operaista, intervista a M. Tronti, ripubblicato in occasione della morte del filosofo sul sito del Centro per la Riforma dello Stato.
Platone, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2014.
G. Roggero, In guerra col mondo. Per Mario Tronti, “Machina” (8 agosto 2023).
M. Tronti,  Operai e capitale, Einaudi, Milano 1971.
Id., La politica al tramonto, Einaudi, Milano 1998.
Id., Il demone della politica, Il Mulino, Bologna 2017.
Id., Sull’autonomia del politico , Feltrinelli, Milano 1977.
Id., Con le spalle al futuro, Editori Riuniti, Roma 1992.
Id., Dell’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011.
Id., Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015.
Id., La Saggezza della lotta, DeriveApprodi, Bologna 2021.
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sulle-spalle-del-gigante?fbclid=IwAR38Bd14ckKmsMSescPHNmM3xsj2FlrBA80_sa4_rLZThetKr3LHtNSzcCk

Mario Tronti, Roma 21 luglio 1931 – Ferentillo 7 agosto 2023.

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