Sembrava immortale Jonas Mekas, ma non per una questione meramente anagrafica (arrivare a quasi 97 anni e in totale lucidità come mi ha confermato un amico non è da tutti), bensì per la sua capacità di aver attraversato i decenni conservando lo sguardo di un bambino. Mekas è stato, sia con i suoi film sia con la sua attività instancabile di operatore culturale, sempre in grado di rinnovarsi, di calarsi nell’attualità. Non è stato il nostalgico cineasta legato alla sua 16mm a molla, ma si è adeguato alla videocamera, cambiando forse un po’ lo stile dei suoi diari, ma non certo l’intensità poetica e la necessità di filmare la quotidianità. Era talmente poco integralista e purista – rispetto a tanti altri filmmakers di avanguardia anche più giovani di lui – che ha iniziato perfino ad usare la rete: il poderoso 365 Day Project nasce inserendo sul sito jonasmekas.com un cortometraggio per ciascun giorno dell’anno, celebrando in questo modo la sua idea di aderenza assoluta del cinema alla vita. Inoltre, quando ormai aveva già superato gli 80 anni, Mekas ha saputo iniziare una nuova carriera da artista, invitato alla Biennale di Venezia e in altri contesti internazionali. Insomma, ha avuto la fortuna di essere scoperto dal mondo dell’arte ancora in vita e non, come sta accadendo per esempio con Vanderbeek, postumo.
Ma riavvolgiamo rapidamente la pellicola della sua vita. Lituano, sbarca negli States subito dopo la Seconda guerra mondiale, non ancora venticinquenne, appassionandosi subito al cinema, ma soprattutto inventandosi una nuova forma di racconto: il diario. Frammentati, con immagini accelerate (forse anche per risparmiare pellicola), con sovraesposizioni, alterazioni cromatiche, caratterizzati da una scrittura nervosa, a volte intervallati da didascalie o da voice over, i suoi cinediari costituiscono all’interno della storia dell’underground, il momento di incontro tra sperimentazione e documentazione, creazione visiva e testimonianza di un secolo.
La sua cinepresa ha filmato i momenti della sua vita (da Walden, 1964-69 a He Stands in a Desert Counting the Second of His Life, 1969-85) intrecciandoli a quelli altrui, della sua cerchia di amici, una comunità sempre più allargata ed espansa: da Andy Warhol (Scenes from life of Andy Warhol, 1990) a George Maciunas (Zefiro torna, 1992), da John Lennon (Happy Birthday to John, 1996) ad Allen Ginsberg (il video girato in occasione della sua morte Scenes from Allen’s Last Three Days on Earth as a Spirit, 1997). E ancora Jerome Hill, Nam June Paik, Julian Beck e il Living Theatre (con cui ha girato The Brig), Timothy Leary, Ken Jacobs, Yoko Ono. Per non parlare delle testimonianze legate alla comunità lituana di New York e al ritorno alle proprie radici, in film come Lost, Lost, Lost (1949-75) o Reminiscences of a Journey to Lithuania (1971-72): il suo rapporto con la Lituania è sempre rimasto intenso e Mekas è stato ricambiato dalla patria natìa quando nel 2007 hanno deciso di intitolargli il Visual Arts Center di Vilnius, onore riservato solitamente ai defunti.
Il nome di Jonas Mekas resta legato indissolubilmente a quello del New American Cinema, più che un movimento o una stagione, un modo di vivere e intendere il cinema, il cinema come esperienza totale, come esercizio quotidiano dello sguardo. In questa cornice Mekas ha creato tra gli anni ’50 e i ’60 la rivista “Filmculture”, la Film-Makers Coop e l’Anthology Film Archives, centri di conservazione e diffusione di film, attraverso cui ha contribuito a far conoscere in tutto il mondo un cinema che altrimenti sarebbe rimasto invisibile ai più. Mekas è stato per molti anni il critico del “Village Voice”, ha sostenuto e scoperto centinaia di cineasti, pensiamo solo a John Cassavetes: fu lo strenuo ammiratore nel 1960 della prima versione di Shadows, anche se, quando Cassavetes decise di rimontarlo perché non aveva riscosso il favore del pubblico, Mekas decise di rompere con l’amico cineasta.
Quello di Mekas è un archivio aperto, infinito, senza tempo, nel senso che i materiali girati in un vasto arco cronologico sono stati assemblati magari anche a distanza di decenni. Sono tessere di mosaico ri-utilizzate in contesti sempre diversi, immagini che ritornano in nuove combinazioni, proprio come i ricordi riaffiorano nella nostra mente in vari momenti della nostra esistenza. Il suo stile è fatto di lampeggiamenti e intermittenze continue, accelerazioni, salti di montaggio, sovraesposizioni, sottoesposizioni, ma soprattutto esposizioni multiple che permettono di lasciar sedimentare più volte le immagini sullo stesso supporto, semplicemente riavvolgendo la pellicola dentro lo chassis.
Attraverso questi accorgimenti da un lato Mekas ha risparmiato celluloide, preziosa per chi ha sempre autofinanziato i propri cortometraggi (secondo la logica della dépense); dall’altro ha registrato lo scorrere del tempo e dei microeventi quotidiani, fissandoli mediante una scrittura incerta, sfocata, nervosa, frammentaria – in una sola parola “instabile” – come fossero il frutto di labili e parziali visioni neuronali. Tra uno sketch e l’altro compaiono didascalie informative, molto essenziali (scritte nere su fondo bianco realizzate sempre con lo stesso stile grafico). Suoni, rumori e musica sono stati registrati a parte, in un periodo coevo alle riprese. In alcuni passaggi l’autore ha aggiunto la sua voice over di commento. Lo stesso Mekas compare volentieri davanti alla camera, come nelle immagini che aprono Lost Lost Lost (tra le prime in assoluto da lui girate nel lontano ’49) dove, insieme al fratello Adolfas – anche lui filmmaker e docente universitario, morto tre anni fa – guarda in macchina, emozionato e divertito, alla scoperta del nuovo dispositivo appena acquistato.
In una nostra conversazione di molti anni fa, gli domandai se avesse un senso definire il suo cinema e quello degli altri suoi amici e colleghi “sperimentale” e lui mi rispose:
Non possiamo parlare di film sperimentale perché non sperimentiamo, facciamo ciò che sentiamo e basta, cercando la maniera migliore per raggiungere certi risultati. Inseguiamo una visione o un’immagine oppure una forma, gli andiamo dietro per carpirla. Così questo cinema – che è iniziato con i Lumière o forse anche prima di loro – proseguirà con differenti tecnologie per creare immagini in movimento. Siamo felici di usare queste tecniche che sono egualmente buone. Tutto ciò è disponibile qui oggi e lo sarà anche domani. Puoi chiamarlo anche cinema sperimentale se vuoi, non mi preoccupa, perché la terminologia non significa nulla, è un nonsense
Tra i suoi numerosi diari filmati ce n’è uno particolarmente significativo per comprendere la sua poetica del dispositivo cinematografico, This Side of Paradise (ultimato solo nel 1999 con materiali degli anni ’60-’70). In questo esperimento Mekas – ospite di Warhol a Montauk, zona residenziale a sud di Long Island – frequenta per un periodo la famiglia Kennedy e decide di insegnare a John John e Caroline ad adoperare una cinepresa per le loro riprese amatoriali, filmando le spensierate vacanze ma anche la mamma Jacqueline mentre fa shopping per le strade di New York. Il cineasta si limita a montare questi “frammenti di una biografia incompleta” (come recita il sottotitolo del film) che risalgono ai primi anni ’70, solo nel 1999, come un’operazione di found-footage: lo sguardo è quello altrui seppure istruito da lui.
Non c’è voyeurismo in tutto ciò, Mekas si è limitato a dare forma a materiali filmati da altri, dagli unici che ne avevano diritto, ovvero i giovani Kennedy. L’“angolo di paradiso” cui fa riferimento il titolo non è solo Montauk, cioè una tranquilla località balneare, quanto piuttosto un luogo dell’anima, il cinema stesso, che diventa per questi celebri ma sfortunati adolescenti un rifugio dalle tragedie che hanno colpito la loro famiglia: l’assassinio del padre e dello zio. This Side of Paradise sta a dimostrare che Mekas non è neppure l’autore di quelli che definisce sketch, diaries o notes. Chiunque può prendere in mano una cinepresa e documentare ciò che lo circonda. Mekas è solo l’intermediario tra il dispositivo e il pubblico. Il suo cinema – così come quello di Brakhage – è un cinema “naturale” e, proprio come Brakhage, tutta la sua filmografia ci ricorda che i filmmaker della sua generazione hanno sempre creato e agito in difesa del cineamatore.
Cosa resterà dell’arte di Mekas e dell’esperienza portata avanti dal N.A.C.? Io credo che le future generazioni non smetteranno di vedere e di trovare in questi film la possibilità di raccontare la realtà interiore ed esteriore in modo diverso.
"Penso al N.A.C.” – mi rispose Mekas nella nostra già citata conversazione – “come a un albero che cresce, un giovane albero o anche un adolescente molto ribelle nei confronti dei suoi genitori. Oggi questa persona è cresciuta, ha 40 o 50 anni, è un uomo nuovo, ma conserva ancora un po’ di memoria, di ricordi, di giocattoli. Così il cinema oggi negli Stati Uniti incorpora in sé tutti i traguardi tematici, linguistici, stilistici e tecnologici degli anni ’60, li ha inglobati e trascesi e ora si trova da un’altra parte. Quel mondo è lontano da me, poiché sono anch’io altrove e faccio altre cose. Ma, nonostante tutto, c’è sempre dentro di me qualcosa di quell’adolescente”