Immagina (o, più probabilmente, ricorda) di aver amato qualcuno, tempo fa, e di averlo perduto. Immagina, poi, di aver atteso per anni il suo ritorno affacciata o affacciato alla tua finestra spiando il cortile, il viale che conduce alla tua porta, in attesa di vedere la punta delle sue scarpe spuntare da dietro l’angolo. Immagina, ancora, di scorgere infine la sua sagoma, invecchiata, avvicinarsi per salire i gradini che conducono al tuo portone con il passo deciso e incerto di chi è tornato, finalmente pronto, ma in fenomenale ritardo. Ma cos’è che sta tornando da te? La figura deludente che si arrampica su quei vecchi gradini non è l’albero che cresceva nel tuo cortile tempo fa e che adesso è stato sradicato, non è il giradischi che un tempo avevi e che adesso è andato distrutto, non sei tu, anni fa, che torni per restituirti il tempo perduto.

In In altre vite tutto quello che ho perduto torna da me l’autrice, Courtney Sender, si rivela capace della più delicata durezza: oscilla ad ogni frase fra una cruda e spietata espressione della delusione che può portare l’amore ed una tenerezza comprensiva verso le ingenuità e le fragilità umane (anche e soprattutto le proprie) trattate con la permissività e la fermezza che si riservano ad un bambino promettente, ma incostante.

Questo libro è costellato di figure, sono vecchi amanti che ritornano, una schiera di individui attesi che (in un’allucinazione onnipotente) chiedono di essere riammessi, ma a ben guardare non si tratta di individui. Leggendo il titolo del libro (identico a quello del primo racconto) un dettaglio salta subito all’occhio: a tornare in altre vite non è “chiunque io abbia perduto”, ma “tutto quello che ho perduto”.

Cos’è, dunque, che si immagina di far tornare a sé? Cos’è questo “tutto” che ci ha abbandonati e che si vorrebbe poter ricomprendere nella propria vita? È sé. Quel sé che non attende alla finestra di vedersi tornare perché è troppo impegnato a vedersi agire. Quel sé che sta ancora srotolando il gomitolo della propria esistenza e che, proprio come un antico amante, ci ha abbandonati ed è rimasto indietro (o siamo noi ad essere rimasti indietro?). È il tempo, che in questa vita non può tornare.

Un’altra notazione preliminare da fare su questa raccolta di racconti è che non si tratta di una raccolta di racconti, ma di una corrispondenza. Frammenti di un discorso amoroso con se stessi. È un libro suddiviso in quattordici capitoli abilmente specchiati in un gioco di rimandi ben visibile fin dai titoli che lampeggiano per il lettore come avvisi, come indicazioni stradali verso tratti di vite da percorrere in macchina, in aereo o a piedi come linee segmentate, che si intrecciano, si accavallano, si toccano appena o si sorpassano senza vedersi e che ad un certo punto si interrompono lasciando posto ad altre linee per poi riemergere di nuovo alla prima svolta.

Volendo, il lettore potrebbe creare percorsi alternativi, ricomporre quei segmenti riformulando l’ordine dei capitoli del libro così com’è stato pensato in sede editoriale, e seguire i segnali stradali lasciati nei titoli saltando quelli che vi si frappongono a separarli. Frammentando il libro e ricomponendolo in questo senso si possono ricostruire le linee interrotte volando da “Per essere una che ha tanta paura” a “Da una così spaventata” o da “Sto per perdere tutto ciò che ho amato” a “Perdere tutto ciò che ho amato” (i cui dettagli, come sempre accade, riemergono nelle vite di altri, nei capitoli che li separano, come piccoli punti nelle geometrie piane che interconnettono le esistenze di tutti i personaggi), oppure si può seguire la strada principale ed imbattersi in “Un angelo sui trampoli” per poi vederlo riapparire fugace qualche capitolo dopo, nella storia di qualcun altro. Non sono racconti, ma frammenti di uno specchio.

“Perdita” e “Tempo” sono due delle molte linee disposte sul piano entro cui ci muoviamo: ma tutto ciò che viene percepito come perduto (quindi come temporalmente dislocato) non è presente. Questa assenza, questa non-presenza molto percepibile, si configura, dunque, sia come non espressa al tempo presente, sia come non presente, non pervenuta, non esistente: qualcosa che non-è (o non- è-più), ma in una forma dai contorni molto definiti. La perdita è tutta nella memoria, è sempre dislocata, non ha a che fare con il corpo, con la materia che sa riorganizzarsi e cambiare disposizione in modo da assumere la forma esatta che le permette sempre di dialogare perfettamente con il circostante. La memoria che ti costringe a restare ferma per giorni, mesi, anni alla finestra, in attesa. Oppure la memoria che ti permette di sapere da dove vieni (e dunque dove ti trovi) come quella che si trova nei capitoli dedicati alla memoria storica del passato, dove le vicende personali legate all’albero genealogico dell’io narrante si mescolano con quelle raccontate nei libri di storia e le mura soffocanti di un campo di concentramento sono troppo strette per contenerla.

In questi capitoli (così come per tutto il libro) appare spesso la figura della Nonna (scritta con la maiuscola, come fosse il suo nome proprio), definita così proprio a sottolineare il legame genetico (e quindi in parte identitario) con chi ci sta raccontando la sua storia. La Nonna è infatti una parte fondamentale dell’identità della nostra narratrice e sarà proprio lei, in una telefonata dall’aldilà al termine del capitolo “Missive”, a dire ai suoi nipoti: «Voi siete tutto. Siete tutto ciò di cui avete bisogno».

Ciò che ci ha lasciati non può tornare da noi se non come memoria e questo perché il corpo non percepisce l’abbandono come perdita, ma come semplice necessità di riorganizzarsi per essere sempre ciò che si è, ossia sempre perfettamente completi (o sempre perfettamente incompleti, che è la stessa cosa). Questo rende un ipotetico ritorno di ciò che si è perduto (nella stessa forma in cui lo si è perduto) semplicemente come non reintegrabile, qualcosa di fuori luogo, come un accordo stonato.

A questo proposito, il tema del “Corpo” è un’altra delle linee che si muovono all’interno del piano forse inesauribile su cui si sposta il libro. Quando si perde qualcuno che si ama, si perde fondamentalmente un corpo: un corpo che ha assunto per noi una predominanza rispetto agli altri corpi con cui entriamo in contatto. Infatti di quel corpo ci manca la sensazione tattile, l’odore, la vista, il suono della voce, il sapore dei suoi baci. È la materialità del suo corpo a mancarci, l’accadere che sapeva creare se messo in azione. Eppure (così come per la teoria percettiva della Gelstalt) “il tutto è più della somma delle sue parti” e un corpo amato è più di una materialità umana in movimento e può, su di noi, molto ma molto di più. Infatti, per una qualche legge di reciprocità, una reazione frequente dopo aver perduto un corpo amato è quella di non saper più cosa fare neanche con il proprio di corpo. Quindi può capitare di lasciarlo nel letto immobile per giorni o lo si abbandona ciondolante su una sedia come si fa con qualcosa che si è usato e che adesso non serve più. Come se il corpo servisse solo in relazione alla persona amata.

Il corpo emerge in tutti i capitoli che compongono il libro, da quelli più materici a quelli più onirici. Nel capitolo intitolato “Per essere una che ha tanta paura”, ad esempio, la voce narrante reagisce alla scoperta che prima di stare con lei la sua compagna era rimasta sola per dieci anni pensando: «E tutti quegli anni con il corpo, che ci hai fatto con il corpo?» Già. Che fare con il corpo? È proprio nel capitolo intitolato “Che fare con il corpo” che questo tema viene ribaltato e trasferito sul rapporto che si intesse con il corpo della persona amata e quanto il non riuscire a considerarlo come qualcosa di separato da sé possa portare ad una lettura appropriante della sua capacità d’agire, fino a vederlo trasformarsi in un corpo antagonista, una cellula cancerosa, che per qualche fastidiosa ragione non si comporta come il resto del nostro corpo. Qui il corpo in questione viene indagato, più precisamente viene scrutato. Prendendo in prestito alcune parole in questo caso fin troppo calzanti da “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes:

Scrutare vuol dire frugare: Io frugo il corpo dell’altro come se volessi vedere cosa c’è dentro, come se la causa meccanica del mio desiderio si trovasse nel corpo antagonista (sono come quei bambini che smontano una sveglia per sapere cosa è il tempo). […] Certe parti del corpo sono particolarmente adatte a questa osservazione: le ciglia, le unghie, l’attaccatura dei capelli, gli oggetti molto particolari. È evidente che in quel momento io sto feticizzando un morto. La prova è data dal fatto che se il corpo che sto scrutando si scuote dalla sua inerzia, se si mette a fare qualcosa, il mio desiderio cambia […]: io amo di nuovo (Barthes 2014, p. 61). 

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2014.

Courtney Sender, In altre vite tutto quello che ho perduto torna da me, a cura di Marina Morpurgo, Giuntina, Firenze 2024.

*L’immagine in copertina e all’interno dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro, illustrazione di Yuval Robichek.

Tags     amore, corpo, Roland Barthes
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