Si è soliti definire “classico” un testo che, al di là del periodo in cui è stato scritto, è capace di rinnovare di continuo la sua attualità. Parafrasando Croce, si potrebbe sostenere che classico è un testo che è “sempre e tutto contemporaneo”; cioè, allo stesso tempo, attuale e inattuale. Alcuni libri lo diventano nel corso dei decenni, altri invece nascono classici, grazie alla capacità di argomentazione delle loro idee, alla profondità delle loro analisi e l’originalità dello sguardo. A questa gamma appartiene senza dubbio Immunitas. Protezione e negazione della vita di Roberto Esposito. Il testo, pubblicato da Einaudi per la prima volta nel 2002 e riproposto dalla stessa casa editrice nel 2020 nella sua seconda edizione, rappresenta il pilastro teorico della filosofia di Esposito, costituendo insieme a Communitas. Origine e destino della comunità e Bíos. Biopolitica e filosofia, quella che potremmo definire la sua “trilogia della vita”.

Attraversando in maniera trasversale le maglie teoriche della biologia, del diritto, della teologia e dell’antropologia, alle cui tematiche sono legati i vari capitoli di Immunitas (appropriazione/diritto, katéchon/teologia, compensatio/antropologia e biopolitica/nesso tra biologia e politica), Esposito individua nel paradigma immunitario la cifra ermeneutica più pregnante per comprendere il nostro tempo e per tratteggiare, attraverso un capovolgimento delle prerogative della biopolitica del Novecento, diventata perversamente in una tanatopolitica, una nuova filosofia della vita. In altri termini: una biopolitica finalmente affermativa (delineata nel capitolo finale intitolato Impianto), capace, attraverso una fruttuosa dialettica tra immunitas e communitas, di prospettare una visione ancora inedita del vivere la nostra dimensione individuale e sociale.

Innanzitutto il concetto di immunitas consentirebbe a Esposito di compiere un passo in avanti rispetto alla ricerca biopolitica di Michel Foucault. Foucault, secondo Esposito, avrebbe mancato nella sua indagine di comprendere fino in fondo, seppur nelle numerose oscillazioni della sua monumentale produzione, il nesso ontologico tra bíos e nomos, tra vita e politica. In altre parole, Foucault considererebbe questi due termini come originariamente separati; il loro rapporto sarebbe, dunque, in fondo estrinseco e collocato di volta in volta in determinate coordinate spazio temporali.

L’idea di immunitas rimanda, invece, immediatamente alla coappartenenza ontologica tra vita e politica, tra natura e storia. Se, come insegna una tradizione antica quanto la filosofia occidentale, tra le parole e le cose vi è una connessione ineludibile, il fatto che si utilizzi lo stesso termine, immunità, per indicare tanto un processo di protezione biologica dell’organismo vivente quanto lo status particolare che spetta nella comunità ad alcuni uomini (ad esempio, l’immunità parlamentare), è sintomatico di quante tensioni convergono nell’ambito concettuale dell’immunità.

Immunitas a questo proposito deve, secondo Esposito, essere letto come il correlato negativo del concetto di communitas. Centrale nella comprensione di questi due termini è l’idea di munus che ne compone la struttura semantica. Munus, nel lessico latino, indica l’obbligo, il debito, ma anche il dono. Communitas, lungi dal nominare lo spazio “comune” di una riduzione all’unità, designa per Esposito il luogo, sempre a-topico e u-topico, in cui si dà un obbligo comune, in cui si è costantemente in debito, la cui unica forma di appropriazione è, heideggerianamente, l’espropriazione. Paradossalmente la comunità è uno spazio (fisico, teorico, virtuale) in cui l’unica cosa che accomuna i propri membri è quella di non avere nulla in comune.

Per convesso, l’immunitas è il negativo che attraversa da parte a parte la communitas. Essere immuni significa trovarsi esentati da quell’obbligo, da quel dovere che lega, slegandoli, i membri di una stessa comunità.

Il carattere negativo dell’immunitas non affiora esclusivamente nell’ambito sociale e politico; anzi, la sua forma originaria è quella biologica e bio-medica, da cui gli altri ambiti mutuano la logica e il linguaggio. L’immunità nomina la capacità, naturale o indotta, da parte di un organismo di essere resistente a un contagio, a un’infezione. In essa si delinea cioè una forma di protezione della vita che, di fronte al pericolo che la attraversa in quanto sua negazione, ovvero la morte, organizza un vero e proprio sistema di difesa al fine della sua salvaguardia.

Esposito individua nel concetto di immunitas il punto di tangenza e di divergente convergenza tra politica e biologia. In entrambi gli ambiti, infatti, il paradigma immunitario costituisce la cifra ermeneutica per comprendere il dispiegarsi di una dialettica al contempo inclusiva ed esclusiva, in cui assume un’importanza decisiva una categoria, quella di negazione, che diviene centrale all’interno di tutto l’impianto filosofico di Esposito (Esposito 2018).

È solo comprendendo come tanto la comunità quanto la vita biologica siano attraversate dal nulla, dunque dal rovescio del proprio stesso essere, in una dialettica mai risolvibile in quanto ontologicamente costitutiva, che è possibile, secondo Esposito, delineare le coordinate concettuali per pensare una biopolitica che non si limiti a essere una forma di comprensione dello status quo ma che costituisca al contempo una forma di praxis; una biopolitica affermativa, dunque, capace di oltrepassare, pur conservandolo nella sua problematicità, l’orizzonte tanatologico proprio della biopolitica novecentesca. Probabilmente è a quest’altezza che si pone la divaricazione tra la riflessione di Esposito e quella di Giorgio Agamben, le cui pagine costituiscono pure un riferimento importante per il filosofo napoletano. Da un lato, il paradigma di Agamben si dà nella forma della destituzione, dall’altro, la proposta di Esposito, come confermano i suoi lavori più recenti (Pensiero istituente), assume la forma dell’istituzione; una forma capace di mantenere acceso, al di là della contrapposizione tra potere costituente e potenza destituente, il carattere “polemico” e produttivo del politico.

Il carattere negativo implicito in ogni forma di immunitas costituisce la forma di realizzazione della vita stessa, sia a livello biologico sia a livello politico; scopo fondamentale di ogni sistema immunitario è, infatti, quello di difendere la vita da se stessa. Così come a livello giuridico la legge costituisce una violenza contro la violenza, permettendo in questa maniera alla vita di emergere dal suo fondo negativo, allo stesso modo l’immunità, a livello biologico, è il dispositivo che protegge la vita contro il proprio eccesso e la propria eccedenza, o, che è lo stesso, contro la morte.

Il confine che separa la vita dalla morte è dunque una soglia porosa e labile; la vita e la morte, o meglio, la vita la morte, secondo l’efficace espressione di Derrida – filosofo in cui la centralità del paradigma immunitario risulta evidente – sono le due facce di un Giano bifronte. Ogni vita porta con sé l’inevitabile ombra riflessa della morte contro cui combatte e con cui si allea in un perverso legame che risulta dirimente in quanto biologicamente – ma anche ontologicamente – determinato. In tale contesto basti pensare alla logica che soggiace al vaccino: proteggere l’organismo da un patogeno attraverso il patogeno stesso. Si dà vita inoculando la morte a piccole dosi, secondo quella ambivalenza semantica rappresentata dal concetto greco di pharmakon.

Eppure nel carattere protettivo dell’immunitas, che, è bene sottolinearlo, è essenziale all’organismo per poter sopravvivere, si annida per Esposito – e giungiamo così al sottotitolo del testo: Protezione e negazione della vita – la possibilità di un suo pervertimento. Detto altrimenti, ogni biopolitica di carattere immunitario è, per essenza, esposta al rischio di un rovesciamento nel suo contrario: una tanatopolitica che spinga talmente avanti il sistema di protezione della vita da giungere a negare la vita stessa. E questo non per un default di sistema, ma in quanto possibilità ontologicamente iscritta originariamente nell’essere stesso dell’immunità. Ogni immunità è, al contempo, sempre autoimmunità: una guerra civile, stásis, che si gioca tanto a livello biologico quanto a livello politico.

In fondo il rischio è quello che già denunciava Nietzsche nell’abbozzare poeticamente nello Zarathustra il proprio progetto di una grande salute: chi ha sempre molti riguardi per sé finisce per ammalarsi dei suoi molti riguardi.

Attenzione, però, Esposito nel prospettare questo rischio non avanza la proposta ingenua di mettere tra parentesi ogni discorso immunitario a favore di una visione adamitica del nostro essere nel mondo. Anche perché, come insegna Heidegger nel proprio confronto con la tecnica, non ci si può porre a favore o contro una forma di dispiegamento dell’essere. E a maggior ragione se, come nel caso dell’immunità, la sua origine ha un carattere biologico.

Si tratta, piuttosto, di comprendere quale rapporto intercorra tra conservazione e negazione della vita e quali effetti questa relazione nelle sue varie forme abbia con il nostro vivere individuale e comunitario. Il pericolo, altrimenti, è che anziché adeguare la protezione all’effettivo rischio, l’ipertrofia immunitaria tenda ad adeguare la percezione del rischio al crescente bisogno di protezione – facendo così della stessa protezione uno dei maggiori rischi. Sia a livello biologico sia a livello politico. I fatti recenti (questione migranti, attacchi terroristici, pandemia da Coronavirus), d’altro canto, sono una dimostrazione concreta di quanto questo rischio sia sempre in agguato.

Di fronte all’affermazione del paradigma immunitario nella forma di una protezione della vita che si rovescia in sua perversa negazione, quale orizzonte di possibilità si apre per ripensare la vita al di là di una logica distruttiva e in vista di un ripensamento di quel munus, quell’obbligo che accomuna tanto l’immunità, in forma negativa, quanto la comunità? In altre parole, si chiede Esposito, è immaginabile un punto di interruzione nel circuito dialettico tra protezione e negazione della vita?

A tal proposito si rivelano interessanti le prospettive delineate in Immunitas sulla scia delle riflessioni di due delle più importanti figure filosofiche contemporanee: Alfred Tauber e Donna Haraway. Lungi dall’apparire come un blocco monolitico e chiuso, l’umanità dell’umano deve essere pensata, tanto a livello biologico quanto a livello sociale, come un campo di battaglia in cui, al di là di ogni possibile stabilizzazione permanente in un’identità, confluiscono vari direttrici eterogenee determinandone l’ineffabilità. Compito di una filosofia a venire – ma anche di una politica istituente – sarà quello di prendere sul serio, sia a livello individuale sia a livello sociale, il nesso inestricabile tra immune e comune che continuamente provoca il nostro essere invischiati nello spazio della differenza.

Riferimenti bibliografici
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.
Id., Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.
Id., Politica e negazione. Per una filosofia negativa, Einaudi, Torino 2018.
Id., Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020.


Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020.

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