La terza stagione di Gomorra sembra aver ribadito la potenza mitologica della serie: la specificità di quel mondo non ha esaurito la sua carica narrativa. L’universo costruito dagli sceneggiatori Stefano Bises, Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli con Roberto Saviano è vivo e ancora capace di produrre storie. Anzi, proprio smarcandosi in parte dalle linee delle prime due stagioni, il cosmo di Gomorra si è rigenerato, inserendo personaggi e trame completamente nuovi e spostando il fuoco delle sue azioni da Scampia al centro di Napoli. Se da un lato si è rinnovata, dall’altro la terza stagione ha messo in campo con il solito nitore l’andamento dialettico che caratterizza tutto l’impianto della serie. Gomorra è un mondo che procede per contrasti, per giustapposizioni paradossali tese al conseguimento impossibile di un superamento, in una moltiplicazione continua di figure antitetiche.
Ancora una volta, Gomorra affonda le sue radici e il nostro sguardo dentro la realtà e ci racconta il funzionamento del sistema camorristico spostando l’attenzione dalle piazze di spaccio della periferia al giro di droga della Napoli Bene. Quindi pone l’attenzione sul “mercato” del lavoro nell’epoca della crisi, esibendo le modalità attraverso cui la camorra rileva le aziende in difficoltà e mette in vendita posti di lavoro.
Insomma, la terza stagione conferma la vocazione realista di Gomorra. Ma lo fa mettendo in campo scene di straordinaria teatralità: non c’è scambio di informazioni che non si svolga in location contemporaneamente scenografiche e veritiere (fabbriche di ceramiche, chiese sconsacrate, discariche di rottami, capannoni industriali, agenzie funebri); non c’è dialogo che non nasconda dietro la naturalezza del dialetto un’epicità alla Game of Thrones; non c’è personaggio che non abbia insieme una statura fittizia (‘o Stregone e ‘o Sciarmante sono bigger than life già solo per il nome) e un’attitudine alla normalità (il loro aspetto, le loro abitudini); non c’è confronto tra i personaggi che non sprigioni insieme affettazione della prossemica e spontaneità psicologica.
Restando fedele al suo tratto specie-specifico, Gomorra 3 mostra una ricerca disperata del potere per il potere e della forza per la forza, che fa sprofondare tutti i personaggi in una cupezza senza riscatto, un tunnel claustrofobico nel quale sembra che non si possa far altro che continuare a scavare. Anche i più giovani, i guaglioncelli di Enzo – il nuovo arrivato di questa stagione – si concedono come massimo edonismo un brindisi a base di birra tra un massacrante turno di impacchettamento della droga e l’altro. D’altronde nel sistema camorristico riecheggia il suo più generale modello ispiratore: il turbocapitalismo del lavoro per il lavoro. Man mano che si vedono i personaggi affrontare sacrifici altissimi pur di espandere il proprio regno, viene da domandarsi “a che pro?”, visto che nessuno si gode niente e il desiderio è sempre frustrato e rialimentato unicamente dalla sua stessa virtualità. Non c’è frivolezza e non ci sono distrazioni nel mondo di Gomorra.
Ma le emozioni sì, e sono basilari, tribali. Genny rovescia il mondo pur di salvare sua moglie e suo figlio; Enzo fa saltare importanti accordi per vendicare la morte di sua sorella; Patrizia riscatta sé stessa e il dolore per aver perso i suoi fratelli e l’amore di Pietro con una vendetta complessa in cui rischia tutto; Ciro si fa ammazzare pur di proteggere Genny.
Tutti i dualismi e le figure antitetiche che sono alla base di Gomorra trovano nella terza stagione il loro compimento: la teatralità e il documentarismo, gli intellettualismi degli intrighi di potere e le istanze affettive della famiglia, il narcisismo dell’Io e la continua ricerca degli Altri, il vitalismo della volontà di potenza e la morte che ne scaturisce a ogni movimento, la necessità perenne e insuperabile di desiderare e l’inutilità della soddisfazione del desiderio. La tensione tra questi due poli è la scarica che attraversa costantemente la serie, ciò che vivifica e rigenera il suo universo drammaturgico, tenendolo sempre sul filo. Di questo funambolico gioco dialettico, la serie ha avuto il suo fuoriclasse: Ciro.
All’inizio della prima stagione, Ciro di Marzio è il punto di vista privilegiato sulla storia. È quello che Angela Maiello, nella sua agile e accurata analisi della serie, ha definito «l’eroe mancato»: attraverso di lui assistiamo alle dinamiche feroci della camorra e siamo con lui nel momento in cui sta per compiere la telefonata alla polizia che potrebbe mettere fine al clan Savastano. All’inizio della storia, insomma, Ciro è dentro e fuori dalla camorra, così come è dentro e fuori dalla famiglia Savastano.
Non fare quella chiamata alla polizia segna il destino del personaggio: se prima stava per uscire dalle logiche della criminalità organizzata, ora vi si immerge, bevendo urine, superando qualunque maestro e sacrificando ragazzini, donne e perfino sua moglie. Alla fine della seconda stagione, soltanto la monolitica e insuperabile durezza del padre putativo Pietro lo mette all’angolo. Genny gli tende però la mano offrendogli l’occasione di una vendetta. E infatti nella terza stagione, Ciro, dopo una purificante sosta in Bulgaria, torna a Napoli e stringe una nuova alleanza con Genny. È l’ultimo tratto del viaggio di Ciro, quello che lo trasforma da guerriero a saggio, da protagonista a mentore.
La terza stagione ci presenta un Ciro che incarna alla perfezione la vuotezza del desiderio di potere di Gomorra. Ormai il personaggio è talmente compromesso e schiacciato da ciò che ha perso, che la corsa in cui si lancia per togliere al Sistema l’egemonia di Napoli centro non sembra avere per lui alcuna posta in gioco (“l’Immortale è morto”, dichiara a un certo punto). Ancora una volta riverbera in Ciro un dualismo che lo porta dentro ai giochi di potere, nelle più cervellotiche strategie, ma al contempo lo tiene emotivamente fuori, distaccato, assente. Fondamentalmente, schiavo della logica a cui ha deciso di consacrarsi compiendo sacrifici altissimi, Ciro si trova incastrato in un movimento schizofrenico per cui ricostruisce un impero criminale quando l’unica cosa che gli interessa davvero è trovare il coraggio di andare al cimitero a visitare i suoi fantasmi. Ciro offre la sua affilata intelligenza a Genny e ad Enzo, rigenerando un triangolo di rapporti di fratellanza/paternità nei quali riveste stavolta il vertice della piramide: infatti, proprio come l’imperturbabile Pietro Savastano, Ciro assiste con compassata indifferenza alle scene di gelosia di Genny e alle dichiarazioni d’amore di Enzo. È dentro a quel triangolo, e insieme ne è fuori (come ricorda prima di morire, lui “non è figlio di re” come loro).
Nella risolutezza con cui si fa sparare da un commosso Genny (sia ricordato, solo a riprova della potenza del formato seriale, che Ciro nel corso del tempo ha ucciso la madre e il padre del giovane Savastano e a un certo punto gli ha sparato lasciandolo in fin di vita), c’è il compimento definitivo di Gomorra. Alla fine del suo viaggio, che è scosso dalla prima puntata da una continua tensione dialettica fatta di figure antitetiche e istanze contrastanti, a Ciro non resta che constatare l’assurda tragicità del suo destino. Nulla, di tutto il suo tortuoso cammino a spirale, ha avuto senso. Accettarlo e aprirsi a un’ultima possibilità, la morte (e il sacrificio), è ciò che compie il destino suo e della serie stessa. Ciro scarta di lato, si sottrae al sistema, maturando l’unico desiderio che possa sottrarlo al regresso infinito del desiderio del desiderio di cui tutti gli altri sono ancora schiavi: farla finita.
Si dice che Gomorra non permetta mai allo spettatore di distogliere lo sguardo, di uscire dall’inferno del suo mondo e riprendere fiato. Forse il riposo sta tutto lì, in quell’ultimo fotogramma, sott’acqua, in cui il cadavere di Ciro si inabissa. L’eroe si lascia sprofondare in una pace che con un lampo gli restituisce il senso della tragedia che è essere quello che è stato, lui e tutta Gomorra. L’Aufhebung, finalmente.
Riferimenti bibliografici
A. Maiello, Gomorra – La serie, Edizioni Estemporanee, Roma 2016.