Una causa immanente è tale solo se l’effetto non esce fuori dalla causa e, pur sgorgandovi, ne rimane in qualche modo invischiato. L’effetto non è emanato, bensì “immanato”. È questa una delle lezioni lasciateci da Deleuze nel suo libro su Spinoza, dove il confronto con il neoplatonismo illumina la novità di un pensiero dell’immanenza rispetto a quello dell’emanazione. Agamben porrà l’accento proprio su questa lezione, indicandola come uno dei più importanti lasciti testamentari di Deleuze: «Con un’acuta figura etimologica, che sposta l’origine del termine immanenza da manere a manare (“sgorgare”), Deleuze restituisce all’immanenza mobilità e vita» (Agamben 2005, p. 393).

Leggere oggi la raccolta di saggi Immanenza: una mappa, a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi, permette finalmente di sollevare qualche dubbio su questa celebre interpretazione mobilista e vitalista e dell’immanenza. Il volume, che intende esplorare tutte le possibili conseguenze dell’“opzione per l’immanenza”, è costruito attorno a una serie di parole chiave (materia, atto, intensità, ecc.) ciascuna delle quali rimanda a un particolare ambito del discorso filosofico (ontologia, etica, estetica). Un po’ “enciclopedia meta-trascendentale” (Poccia in Panattoni, Ronchi 2019, p. 146), un po’ brochure di un corso di laurea in scienze dell’immanenza, il testo si scandisce seguendo un convenzionale ordine alfabetico degli autori.

Della mappa si può dire che non abbia nulla; a meno che orientarsi nell’immanenza non consista nel disorientare il lettore. Ed è forse ciò che intende Panattoni quando scrive che «le mappe non sono affatto utili per orientarsi, servono unicamente per muoversi in forma rizomatica sulla superficie per cogliere come […] vi siano sempre cunicoli, tane, stanze accanto, vie di fuga inaspettate e inappariscenti» (Panattoni, Ronchi 2019, pp. 10-11). Se la mappa è un piano di immanenza, questa non è una mappa esplorativa, dove lo spazio è centrifugo e prospettico, né una mappa del tesoro, dove lo spazio è centripeto attorno a una X. Piuttosto è una mappa per scappare di casa, senza prospettiva.

Cosa intendiamo quando parliamo di immanenza? Non è chiaro. Vittorio Morfino afferma che «il termine immanenza acceca più di quanto illumini» (Morfino in Panattoni, Ronchi 2019, p. 93). Secondo Felice Cimatti è un concetto «difficile da individuare», del quale «non c’è molto da dire» dato che «nel momento stesso in cui si pone qualcosa come immanente, in quello stesso momento l’immanenza è evaporata, è diventata qualcos’altro» (Cimatti in Panattoni, Ronchi 2019, p. 55). L’unico punto fermo sta nella risoluta opposizione alla trascendenza, al dualismo e alla relazione, ciò che fa del pensiero dell’immanenza un pensiero dell’Uno. Almeno in qualche senso. Forse, il principale paradosso dell’immanenza rimane che sebbene esso sia uno dei nomi dell’univocità dell’essere, di per sé è un termine equivoco (ivi, p. 93).

Comune a tutti i filosofi dell’immanenza, ad ogni modo, è la pretesa di parlare «dal punto di vista della natura» (Campo in Panattoni, Ronchi 2019, p. 31) o per dire che la natura si esprime sempre e in tutti i modi (Ronchi in Panattoni, Ronchi 2019) o per sottolineare che la natura preferirebbe stare zitta e non rispondere agli interrogativi sperimentali della scienza (Cimatti in Panattoni, Ronchi 2019). Si tratta sempre di «abbandonare ogni misura umana» (ivi, p. 23) ma non è univoca la via di fuga presa. L’immanenza può sboccare tanto in un teologico naturalismo, quanto in un estetico antinaturalismo. Si aprono almeno due vie, difficilmente componibili. La prima considera la physis come processo auto-generativo o produzione senza prodotto, la seconda pensa il mondo come tautologia, scarto, inoperosità, ritiro.

Mettendo da parte i contenuti e guardando alla forma, si può dire che l’immanenza è la «definitiva risoluzione dell’esperienza tutta nell’esercizio di un pensiero di nulla e di nessuno, di un pensiero anonimo, impersonale e trans-individuale, rigorosamente de-soggettivizzato e riottoso verso qualsiasi assegnazione proprietaria, ma disposto a concedersi a chi ha fatto il giusto training» (Poccia in Panattoni, Ronchi 2019, p. 146). Un training filosofico, certo, ma anche ortografico, perché «tutto il problema dello “speculativo” consiste […] in una questione grafica» (Ronchi in Panattoni, Ronchi 2019, p. 158).

Sviluppando quella filosofia dell’interpunzione che Agamben deriva da Adorno, Ronchi propone una brevissima storia dell’ortografia filosofica, che è anche una storia di come la filosofia occidentale abbia interdetto lo speculativo (in particolare: l’intuizione intellettuale) dall’ambito del pensabile: i due punti (:) indicano la scrittura della speculazione, lo scambio (Wechsel) immediato di pensiero ed essere, essere e pensiero; la virgola (,) sancisce l’emergenza della critica e del trascendentalismo; il trattino (–) tipico delle scritture filosofiche contemporanee, segnala l’avvento di tutte le decostruzioni e l’esito post-filosofico del pensiero novecentesco con la conseguente paralisi dello speculativo. «L’effetto prodotto dal trattino – scrive – è la mise en abyme del fondamento, la sua dissoluzione fantasmatica (spettrale) nel proliferare di discorsi autoreferenziali» (Ronchi in Panattoni, Ronchi 2019, p. 170). Non che il discorso dell’immanenza, pur parlando di natura, processi e atti in atto, manchi di una certa autoreferenzialità…

Un altro segno di interpunzione caratterizza l’atmosfera post-filosofica contro cui il pensiero dell’immanenza si scaglia: i puntini di sospensione (…). Sì, proprio loro, quelli che caratterizzerebbero, senza però qualificare, la deleuziana una vita…. Il loro torto starebbe nell’alludere ironicamente al regresso all’infinito nel quale ricade ogni pensiero che relativizzi il fondamento. Si misura qui la distanza che separa Deleuze dalle sue letture “speculative” (Ronchi, Badiou). È come se fosse impossibile tenere insieme gli elementi teoretici più forti del pensiero deleuziano dell’immanenza senza perdere di vista gli aspetti più pragmatologici e pop-filosofici. Deleuze: una sintesi disgiuntiva. Forse è venuto il momento di fare un passo indietro e ritornare a una concezione dell’immanenza che, assieme all’univocità dell’essere e la sua flatness ontologica, ponga l’accento sul manere piuttosto che sul manare. Due possibilità: o questa strada era sin dal principio un vicolo cieco, oppure ha semplicemente esaurito quanto aveva da dire.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Profanazioni, Nottetemp0, Roma 2005.

Immanenza: una mappa, a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi, Mimesis, Milano 2019.

Share