tecnica montani
American Sniper (Eastwood, 2014).

L’antropologia filosofica classica, fiorita nella prima metà del Novecento (Gehlen, Plessner, Scheler), ha, tra i suoi meriti, di avere inverato, su basi scientifiche, il presupposto della Fenomenologia dello spirito: la natura umana, ciò che fa di un uomo propriamente un uomo, ciò che lo rende un animale in grado di non esserlo, non è la sua natura, ma la sua carica tecnico-spirituale. Vale a dire, in una battuta, l’uomo per natura è un essere innaturale o, più precisamente, tecnico. Insomma, è un animale un po’ mostruoso. Questa amplissima costellazione teorica, che da decenni forse come nessun altro Peter Sloterdjik esplora sistematicamente, nell’età in cui alla dicotomia tecnica/natura non crede più nessuno (altra cosa è chi fa ancora finta di crederci), è la cornice anche dell’ultimo, sostanzioso saggio di Pietro Montani: Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio, 2017); ricordiamolo: di recente curatore tra l’altro di una silloge di saggi proprio di Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte (Cortina, 2017).

Partiamo dall’inizio, per non lasciarci sfuggire la grande ambizione di Tre forme di creatività, che peraltro Montani non maschera ammettendo esplicitamente che quella del libro è “una tesi forte”: Tre forme di creatività ha l’incarico di dare ordine alle nostre attuali mappe concettuali in modo da fornire un solido orientamento, in particolare, alle nostre abilità artistiche e politiche. Questa forma d’irradiazione “originaria” è la “creatività tecnica”. Di che cosa si parla quando si parla di creatività tecnica dell’uomo? Ovviamente di tante e difficili cose ma per il nostro tempo, l’età del digitale, ciò che più importa è rimarcare che si tratta di una forma di «empowerment del soggetto umano, […] la realizzazione di una singolare unità di organico e inorganico, capace di scoprire sé stessa, e le sue potenzialità, solo nel corso di un’effettiva attività» (Montani 2017, p. 8).

L’intenzione di Montani, sostanzialmente, è mostrare che la tecnica, alla Heidegger, ma diversamente da lui, da un punto di vista antropologico, non è come pensa il marxismo un semplice strumento, ma costituisce una forma della creatività umana (o meglio: la forma di creatività che permette ogni altra forma di creatività) che lascia affiorare la facoltà dell’immaginazione, alla quale va attributo lo straordinario successo adattativo/evolutivo della specie umana. Per Montani, dunque, l’uomo è diventato un uomo mediante la co-implicazione tra tecnica e immaginazione: l’uomo non è (soltanto) un animale grazie a ciò che immagina, dal momento che la sua immaginazione ha la propria radice in un territorio extra-naturale, tecnico, künstlich (artificiale; ma qui si potrebbe commettere peccato senza colpa grave e scrivere, secondo il più classico e scolastico errore di traduzione, più che artificiale, artistico).

L’indicazione circa il modo in cui il ruolo della tecnica andrebbe inteso da parte di Montani è molto chiara: “la creatività tecnica va compresa alla luce di una peculiare attitudine progettuale dei nostri processi percettivi e immaginativi: un modo di avere percezioni e farsi immagini del mondo – ambiente tale da riconoscervi, innanzitutto, il profilarsi di possibili artefatti” (p. 8). Risuona qui evidentemente, come spesso accade nei lavori di Montani, una forte impronta kantiana; in particolare la logica dello schematismo ridefinito nella terza Critica, lì dove si mette a punto il paradigma dell’estetica moderna: il luogo in cui il mondo, grazie all’elaborazione che di esso l’immaginazione concepisce, assume la forma di un artefatto. 

È la tecnica dunque, come vera e propria forma di creatività, che consente all’homo sapiens di percepire il mondo in cui abita, perlustralo, e infine conoscerlo. Il linguaggio verbale articolato è, nello specifico, la tecnica cui l’uomo assegna l’abilità di riferirsi alle cose, stabilendo relazioni fra di esse, attraverso l’uso delle parole. Dunque, anche il linguaggio, in quanto tecnica, è una forma di creatività, almeno fino a quando conserva «la capacità di riorganizzare e rigenerare l’ampiezza e la plasticità» del mondo. Solo dispiegandosi «come intreccio necessario di immaginazione (tecno-estetica e schematismo tecnico) e linguaggio (schematismo logico e analogico)», la tecnica diventa «il prototipo della creatività in quanto risorsa adattativa specie-specifica»(ivi, p. 41). Se questo intreccio si rompe, però, c’è il rischio che la tecnica – una risposta imprescindibile a esigenze di ordine adattativo – smetta di rappresentare un processo creativo, diventando un apparato automatico di relazioni (in queste pagine di Montani, a mio avviso, rimbombano forti le tesi, venate da grande sfiducia verso il tempo presente, di un libro di Gehlen del 1957, Die Seele im technischen Zeitalter; tradotto in italiano con il forviante, L’uomo nell’era della tecnica).

Forse è in questa parte di Tre forme di creatività, quando Montani si fa, con grande discrezione, va detto, un po’ critico della cultura contemporanea, dei suo processi, dei suoi stili, delle sue banalità, paventando il pericolo di un farsi meramente tecnico della tecnica, che emergono alcuni aspetti più problematici del suo saggio. Affiora infatti il rischio, qui tutto da discutere, sia ben chiaro, di una sottovalutazione del carattere sempre “automatico” della tecnica, predisposizione che presiede alla sua speciale dimensione creativa. Probabilmente il linguaggio crea mondo solo se il suo impiego è prima spontaneo e ripetitivo; ossia, soltanto se si tratta di un’esperienza che si potrebbe definire normale; altrimenti non potrebbe avere una potenza adattiva sul piano biologico. Soltanto dentro questa cornice, almeno sul piano antropologico, è possibile pensare forme di rottura creativa. La tecnica è già da sempre la connessione comune di creatività e automatismo, di differenza e ripetizione. Insomma, la grazia, l’evento, accade nell’intelaiatura del consueto. L’esperienza del linguaggio, in fondo, è sempre l’ingresso in un universo già abitato; le cui regole vanno apprese fino a farle diventare automatiche. Terminato questo sforzo, che l’antropologia filosofica chiama anche “esonero”, l’immaginazione, per seguire Montani, può iniziare a dominare la scena antropologica.

Ma andiamo avanti, perché di fronte all’immalinconirsi della tecnica nell’età delle tecnologie digitali, Montani non dispera: la tecnica sarebbe in grado di scartare da ogni rischio di automatismo e di riappropriarsi della propria natura intimamente creativa. Sono tre le dimensioni in particolare in cui si gioca la nostra resistenza alla sovranità dell’automatismo (il cui rischio più grande, come insegna Gehlen, sarebbe una radicale ri-animalizzazione dell’uomo): il campo dei sogni, dell’arte, della politica. Sono questi i luoghi in cui il linguaggio prende congedo dalla sua funzione meramente cognitiva e sperimenterebbe una più essenziale abilità estetica d’invenzione del mondo. Il tema del sogno, in particolare, schiude la parte senza dubbio più preziosa e suggestiva del libro; quando ci troviamo non soltanto ovviamente di fronte a fondamentali principi della tradizione freudiana, ma siamo consegnati anche a una riproposizione, se è concesso, della dimensione onirica dell’apollineo nietzscheano come unica forma di cultura possibile quando il problema più grande dell’uomo contemporaneo diventa proprio la sua cultura.

Per Tre forme di creatività il sogno, nello specifico, genera immagini in grado di sottrarsi al divenire ornamentale e meccanico delle nostre tecniche di creatività; l’attività onirica sarebbe in grado di eludere la dis-automatizzazione della tecnica mettendo all’opera una tensione dell’immaginazione capace d’agire prima di qualsiasi cattura linguistica. Nel sogno, più precisamente, l’immaginazione inventa le cose dando loro un nome che normalmente non possiedono. Per questa ragione, evidentemente, il contenuto manifesto di un sogno non esaurisce il suo significato, dal momento che il suo principio d’organizzazione incrina alla base qualsiasi vincolo che collega un’immagine e le parole che usiamo per descriverla. Accade nel sogno, dunque, ciò che accade nell’arte, per cui, ancora secondo Kant, nessun concetto (ma anche nessun discorso) è in grado d’esaurire ciò che un’opera ha da dire, quando ci dà qualcosa da pensare. Ma ciò vale anche per la politica, quando non si esaurisce in un’amministrazione dell’esistente, ma concepisce nel possibile l’impossibile (ossia, alla Derrida, molto semplicemente, ciò che prima di essere pensato nessuno aveva pensato).

Nell’economia di questo campo di forze teorico, al cinema è riservato, in questo come in molti altri lavori di Montani, un ruolo cruciale. Innanzitutto perché il cinema ha a che fare tanto con i sogni, quanto con l’arte e con la politica; e poi perché, più essenzialmente, è una tecnica e un linguaggio e dunque sa, in molti casi, come disinnescare gli automatismi in cui la tecnica stessa può rischiare di incappare. A questo proposito, probabilmente, è uno l’esempio più adatto, tra quelli indicati da Montani, per verificare la consistenza estetica di questa tesi: American Sniper (2014) di Eastwood. In una delle sequenze centrali del film, il cecchino, il protagonista, è inquadrato un attimo prima di compiere il più intollerabile dei delitti, quello di un innocente per definizione: un bambino. L’inesperto giovane guerrigliero cerca di sollevare un bazooka; vorrebbe sparare ma non ci riesce: la macchina non fa (ancora) per lui. Il cecchino, nel frattempo, osserva ogni suo movimento; è pronto a colpire, se necessario. Il suo fucile, lo sappiamo da tempo, costituisce chiaramente un prolungamento organico del suo corpo: non c’è differenza fra il dito e il grilletto.

Ma affiora l’inatteso: vi è un ostacolo all’ordinaria condotta dell’unità uomo-fucile, binomio che fa del protagonista un soldato leggendario. Divampa un tempo imprevisto; un frammento di tempo che permette al bambino di capire che non può usare l’arma e al cecchino di non premere il grilletto. È un tempo questo che il cinema introduce quasi come una sospensione del tempo nel tempo (Benjamin lo chiamerebbe Jetztzeit: il tempo della decisione in cui la politica e l’etica si co-implicano fino a diventare indistinguibili); simile a quella di un fermo immagine, e che consente la ricomposizione dell’intera scena. Dis-automatizzare significa evidentemente attuare uno scarto, una disgiunzione, in questo caso fra l’uomo e la sua protesi tecnica.

Creare, immaginare, questi inceppi, sfasature all’interno dell’apparato linguistico-visivo digitale contemporaneo, quando esso smarrisce la propria carica di creatività, ci dice Montani attraverso Eastwood, dovrebbe disegnare il nostro compito (politico) quotidiano; anche perché probabilmente in questa lieve voragine si annida il diventare sempre altro da sé dell’umano.

Riferimenti bibliografici
A. Gehlen, L’ uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, a cura di M.T. Pansera, Armando Editore, Roma. 2003.
P. Montani, Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica, Cronopio, Napoli 2017.
P. Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, a cura di P. Montani, Raffaello Cortina, Milano 2017.

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