Ho appena visto Il grande sentiero di John Ford. Splendido. Qualcuno ha scritto che a questo film manca la costruzione drammatica, ritmica. È proprio questa mancanza a essere straordinaria. L'ultimo sguardo di Ford poteva vedere con gli occhi dell'altro, dell'indiano. Poteva vedere oltre l'intreccio (Dardenne 2009, p. 39).
Museo del cinema. Ho visto diversi Hawks. Un ritmo unico. Qualcosa che marcia al passo, accelera, rallenta, fa del surplace, si riposa, lascia esitare i gesti, gli sguardi, le parole di situazioni estranee all'intreccio, come un pasto, una sosta attorno a un fuoco, una canzone accompagnata da una chitarra, una ferita da curare, poi riparte con un'improvvisa accelerazione… Come se a Hawks non interessasse il ritmo dettato dall'intreccio ma qualcosa di più difficile da riprendere, qualcosa che sia come la vita. Sì, questo possiamo chiamarlo vita (ivi, p. 110)

Queste parole di Luc Dardenne, contenute in quel bellissimo volume/diario che è Dietro ai nostri occhi, colgono un aspetto che ci pare decisivo per provare a riflettere ancora sul western, e in particolare su due figure centrali della classicità come Ford e Hawks. Quello che Dardenne coglie è l’idea che il cinema, anche nella sua forma classica, sia una questione non di intreccio, di costruzione narrativa bensì di ritmo, o potremmo dire meglio, di respiro. D’altra parte, lo scriveva in un’altra nota riferendosi al suo cinema (e di suo fratello Jean-Pierre): «Il ritmo, il respiro è la nostra forma cinematografica» (ivi, p. 68).

Ora, ci pare che questa del respiro sia una qualità vitale – l’alternarsi dei due movimenti di apertura e chiusura che il respiro chiama in causa non riguarda solo la respirazione ma anche i movimenti sistolici e diasistolici del cuore – che appartiene ontologicamente al western. Un’idea che se apparentemente può sembrare un cliché critico (quante volte abbiamo letto espressioni come “respiro epico” riferite appunto a film appartenenti a questo genere) merita forse alcuni approfondimenti.

Scriveva Gilles Deleuze: «La qualità principale dell’immagine, qui [nel western] è il soffio, il respiro» (1993, p. 172, corsivo nostro). E André Bazin, nel celebre saggio sul “sur-western”, ritrovava nel cinema di Anthony Mann «quel senso dell’aria che è in lui come l’anima stessa del western» (1986, p. 270, corsivo nostro).

L’immagine del western quindi come un’immagine che respira, in un doppio movimento di contrazione e di rilascio. L’ambiente respira insieme all’eroe. È il movimento che anima il western nella sua fase classica, quella in cui prende forma il grande racconto della nascita di una Nazione, quella dell’accordo tra mondo (naturale e sociale) e azione dell’uomo, quella che fa del genere la continua riattualizzazione dell’evento fondativo della civiltà americana e che trova nel cinema il mezzo espressivo più adatto a rappresentarlo, in quanto incarnazione di quell’idea di mobilità legata alla frontiera americana al centro dei suoi racconti. Uno spazio instabile, il cui confine è sempre da ridefinire; un territorio da attraversare, in cui «l’eroe percorre un itinerario, solo o con una mandria; congiunge un punto del mondo a un altro; apre una pista o una strada, costruisce una ferrovia o installa il telegrafo. Si tratta sempre di far coincidere il regno dell’uomo, l’ordine sociale, l’armonia naturale. Di stabilire o di ristabilire questo accordo fondamentale» (Dort in Bellour 2023, p. 38). Ford ne ha dato diverse rappresentazioni ma forse quella di La carovana dei mormoni (1950) è tra le più significative. Storia di un viaggio verso la terra promessa guidato sì da due eroi, che si fanno, nei termini di Deleuze, rappresentanti della comunità, ma in cui è proprio la comunità stessa la vera protagonista. Una comunità che si fonda inglobando a sé gruppi eterogeni: mormoni, attori girovaghi, indiani.

Un viaggio ritmato da un tempo «che si dilata mentre si avanza a gran fatica e si contrae quando ci si riposa» (Deleuze 1993, p. 172). Ecco quindi la lunga scena del ballo, che come sempre in Ford è lo spazio-tempo in cui la comunità si compatta, in cui assistiamo alla nascita dell’America come comunità. Pensiamo in questo senso in Sfida infernale (Ford, 1946) alla camminata di Wyatt Earp e Clementine attraverso Tombstone verso la chiesa in costruzione, «è la creazione del mondo, Adamo ed Eva che passeggiano nel paradiso terrestre, la nascita dell’America» (Crespi 2023, p. 68).

Il western è il momento in cui il mito prende forma, la rappresentazione perfetta e “vicino a noi” di quella particolare ibridazione di storia e leggenda che è appunto il mito. Ma non solo. E qui veniamo al punto che ci interessa maggiormente evidenziare e forse una ragione della sempre attualità e fascino del western. Questo doppio movimento che lo costituisce è simmetrico a quello dell’animo umano, sempre lacerato tra desiderio d’aperto e pulsione alla chiusura. È ciò che costituisce il fondamento della narrazione western incentrata sull’incontro tra mondo civile e mondo selvaggio, tra wilderness e civilization: «Da un lato l’avventura, la scommessa, l’epopea dell’individualismo, dall’altro, e contemporaneamente, la conquista, l’ordine, la società» (Bellour 2023, p. 13).

È il conflitto principale su cui si regge l’intero genere, quello tra uno spazio chiuso e regolamentato, tipico della civiltà, del “giardino” coltivato, e un territorio instabile e sfuggente, il deserto della wilderness, in cui sono la brutalità, la vendetta o la legge del singolo a prevalere. Come dice Hallie, la moglie del senatore Stoddard nel finale di L’uomo che uccise Liberty Valance (Ford, 1962), guardando il paesaggio dell’Ovest dal finestrino del treno quando ormai anziani sognano di tornare a vivere nel West dopo aver passato una vita a Washington: «Era una terra selvaggia, ora è un giardino».

Il doppio tempo del respiro è anche quello delle due anime dell’umano: da una parte, la figura dell’aperto, della spinta verso l’aperto incarnato dal deserto, dall’altra, il movimento contrario di chiusura, del terrore dello sconosciuto e dell’ignoto. Perché l’ignoto non è solo il luogo dell’allargamento della nostra conoscenza ma porta con sé un pericolo, una minaccia. E qui entra in gioco il ruolo dell’eroe, il cui compito è farsi rappresentante della comunità ed essere capace di compiere la grande azione in grado di ristabilire l’ordine compromesso e condurre appunto la comunità nella terra promessa. L’umano è quindi da una parte spinta verso l’aperto, verso lo sconfinamento, dall’altra è tensione a rafforzare il confine, a fare del confine una vera e propria tentazione.

Ma la funzione simbolica del confine non è soltanto delimitare l’interno dall’esterno ma anche mettere in rapporto interno ed esterno, conosciuto e sconosciuto. Il confine è tale se mantiene una certa dose di porosità che delimita ma mantiene uno scambio tra interno ed esterno. Luogo di scambio quindi non solo di delimitazione: «Il di fuori ingloba il di dentro. Ambedue comunicano e si avanza passando dall’uno all’altro nei due sensi, secondo le immagini di Ombre rosse, dove l’interno della diligenza si alterna con la diligenza vista dall’esterno. Si può andare da un punto conosciuto a un punto sconosciuto, terra promessa come nella Carovana dei Mormoni» (Deleuze 1993, p. 172). E la fase classica, epica, del western è quella in cui l’adeguazione tra interno ed esterno è perfetta, l’equilibrio tra l’uomo e il mondo pienamente raggiunto.

Ora, questo doppio movimento, questa doppia anima, possiamo ricondurla a due possibili schemi archetipici di racconto che il western di Ford e di Hawks sembrano incarnare: le Odissee e le Iliadi (Vanoye 1998, p. 33). Da una parte, cioè, storie orizzontali che trovano nel viaggio (fisico o simbolico) una sua messa in forma, e dall’altra storie circolari che comportano la contrapposizione tra due gruppi umani o tra due tipi di personaggi emblematici e che soprattutto si strutturano attorno a uno spazio circoscritto, dai confini ben definiti. Da una parte lo «spazio liscio» del deserto, dall’altro lo «spazio striato» della città (cfr. Deleuze, Guattari 2017).

Come i grandi poeti dell’antichità, Ford e Hawks, i grandi autori della classicità, non sono refrattari dall’essere riferiti a un’opera spartita in Iliadi e Odissee, in guerre e in peregrinazioni. Se La carovana dei mormoni esprime alla perfezione la tendenza verso l’aperto, Un dollaro d’onore (Hawks, 1959) è la concretizzazione esemplare dell’altra tendenza, quella di un western claustrofobico che cancella l’Inglobante fordiano, il grande cielo.

Anche se pure nello stesso Hawks troviamo esempi della prima linea. Se Il fiume rosso (1948) e Il grande cielo (“È un territorio immenso. La sola cosa che c’è di più grande è il cielo”, è la celebre battuta del film che sintetizza tutto questo) sono chiaramente dei western/Odissea, l’altra parte della produzione western di Hawks si muove nella direzione dell’Iliade. Se il motivo del viaggio omerico lo troviamo nei fordiani Ombre rosse (1939), Il grande sentiero (1964), oltre naturalmente a La carovana dei mormoni, e negli hawksiani Il fiume rosso e Il grande cielo (1952); quello dell’assedio è sì maggiormente presente in Hawks ma non mancano esempi anche in Ford: in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) la cittadina diventa uno spazio-set assediato dagli uomini del bandito. Ma è soprattutto in Hawks che all’immensità del cielo fordiano si sostituiscono prigioni, chiese, luoghi claustrofobici. Qui

la natura non è più il Fuori imprevedibile, il supporto in cui si inscrive la novità e l’evento, semmai si corre ai ripari contro ciò che accade fuori, si costruisce una trincea, un bunker per resistere all’assalto. Ma soprattutto: sia la minaccia sia l’inatteso e l’imprevisto vengono da dentro. Il traditore degli yankee è un nordista (Rio Lobo) e la disincantata chorus girl – che troviamo all’interno dell’albergo – si rivela una donna innamorata (Un dollaro d’onore). Nei western di Hawks la comunità perde la sua organicità a tutto vantaggio di un gioco equivoco, retaggio della commedia sofisticata degli anni Trenta di cui Hawks era principe (D’Angela 2012, p. 180).

Un dollaro d’onore estremizza questo procedimento: la cittadina in cui si svolge la vicenda è sin dall’inizio uno spazio chiuso, assediato (“Siamo bloccati in paese”, dice lo sceriffo Chance all’inizio del film) da un gruppo di banditi capeggiati dal ricco latifondista Nathan Burdette, la cui banda è responsabile di ripetute violenze e intimidazioni nella cittadina di Rio Bravo. Hawks disegna una geografia in cui si passa senza soluzione di continuità dalla prigione alle stanze dell’albergo dove lo sceriffo Chance incontra la donna vedova di un giocatore d’azzardo. Sono spazi quasi comunicanti.

Se torniamo alle considerazioni iniziali di Luc Dardenne possiamo vedere come forse una qualità principale dei western di Ford e Hawks sia proprio il fatto che in entrambi i casi i due autori riescano a tenere in tensione questi due poli e quindi questo doppio movimento di interno ed esterno, di aperto e chiuso, di contrazione e rilascio. Un dollaro d’onore in quanto film su l’attesa è tutto costruito su questo, sull’alternanza di pause, di digressioni, come «una canzone accompagnata da una chitarra».

Se c’è un film che meglio riassume e tiene insieme le due linee è però Sentieri selvaggi (Ford, 1956), il film in cui l’epos lascia il posto al romanzo, in cui l’eroe non è più a rassomiglianza del mondo dell’epopea, chiuso e perfetto, in cui l’interiore e l’esteriore coincidono perfettamente, l’anima e l’azione fanno tutt’uno, ma entra in gioco il conflitto, che è in primo luogo interiore.

Sentieri selvaggi «è l’Iliade e l’Odissea fuse in un’unica storia, con un protagonista che è iracondo come Achille e tenace come Ulisse. Ma a differenza di Achille, Ethan non saprà riconciliarsi con il padre del suo nemico né trovare la “peace of mind” di cui parla la sua canzone; e a differenza di Ulisse, scoprirà che Penelope non l’ha aspettato ed è destinata a morire» (Crespi 2023, p. 40) Sentieri selvaggi diventa allora il racconto dell’impossibilità di ritrovare l’unità organica e la pienezza del mondo epico. E il lungo percorso di Ethan è volto ad accettare che la condizione intatta di partenza è perduta per sempre. E la porta che gli si chiude alle spalle mentre si allontana claudicante lasciandosi alle spalle un interno nero è l’immagine perfetta di una luminosità ormai perduta. I western «raccontando senza sosta l’impossibilità di ritrovare l’unità organica e il senso pieno del mondo epico, ci danno l’immagine più reale e più ricca della nostra condizione esistenziale e storica» (Dort 2023, p. 45)

Il western allora è espressione di tutto questo. È questo che continua ancora ad attirarci e a riguardarci. Perché in esso prende forma la doppia natura dell’esistenza umana: spinta verso lo sconfinamento e spinta a rafforzare il confine. Il western ci parla dell’esistenza umana, è racconto dell’esistenza umana.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986.
R. Bellour, Il grande gioco, in Id., Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, Cue Press, Imola 2023.
B. Cartosio, Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2020.
A. Crespi, Il mondo secondo John Ford, Jimenez, Roma 2023.
Id., Cinema western, Treccani, Roma 2023.
L. Dardenne, Dietro ai nostri occhi. Un diario, Isbn Edizioni, Milano 2009.
T. D’Angela, Western. Una storia dell’Occidente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Orthotes, Napoli 2017.
G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1993.
B. Dort, La nostalgia dell’epopea, in R. Bellour, Il western, cit.
M. Grande, Il western: un’epopea moderna, in R. De Gaetano, a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio di Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998.
F. Vanoye, La sceneggiatura. Forme, dispositivi, modelli, Lindau, Torino 1998.

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