Nel nostro immaginario i racconti dell’orrore rispondono a tonalità piuttosto precise: il buio, l’oscurità, l’ombra. Il loro colore è, per convenzione, il nero delle tenebre. Oppure, e al massimo, il rosso del sangue e il verde dei fluidi alieni. Convenzionale, no? E se vi dicessi che esiste anche una cosa chiamata «orrore bianco»? Pare che l’espressione sia stata coniata da alcuni lettori del Moby Dick di Herman Melville per descrivere il senso di atterrimento prodotto dall’emersione della più famosa delle balene. Non le dimensioni colossali dell’animale, né la sua forza, la sua forma o il suo furore, bensì la raggelante bianchezza, misteriosa e ineffabile, che si innalza dall’acqua come un cielo infinito. Un cielo che paralizza lo spettatore, lasciandolo angosciato e inerme, sì, ma anche e in qualche modo appagato, risucchiato da una Cosa senza nome, orrida e sublime allo stesso tempo.
La formula vantò un certo successo, e venne accolta anche dagli adepti di un maestro del brivido quale Edgar Allan Poe, per poi raggiungere il suo massimo picco estetico e concettuale nel film Vampyr, il capolavoro del 1931 firmato da Carl Theodor Dreyer. Ebbe Neergaard, il biografo del regista danese, scriveva che Vampyr era capace di suscitare nello spettatore un disagio bianco, un orrore algido, che non coincide semplicemente con la presenza incombente del vampiro (che difatti nel film vediamo a stento), ma rimane invisibile, vago e senza nome. Un orrore pallido e incorporeo che si deposita su oggetti e persone come nebbia, finendo per azzerare la capacità dello spettatore di orientarsi tra il sonno e la veglia, il passato e il presente, la vita e la morte.
Dreyer dice di aver reso questa atmosfera orientando verso la cinepresa la luce di un riflettore coperto da un panno nero. L’obiettivo? «Creare sullo schermo un sogno in stato di veglia, e mostrare che l’orrore non risiede nelle cose intorno a noi ma nel nostro subconscio» (Cristalli, Cavazza, Virgolin 2022, p. 11). L’operazione non è sfuggita alla critica, nel bene e nel male. L’anno successivo, un recensore del New York Times definì Vampyr «uno dei peggiori film che abbia mai visto», pur rimanendo stregato da alcune scene che, parole sue, «ti afferrano con una forza brutale e ineludibile» (ivi, p. 44).
L’orrore bianco è un concetto delicato, di quelli di cui si rischia di abusare facilmente, finendo per travisarne il senso originario. Per questo motivo, è bene usarlo con parsimonia. Il perfezionamento del sonoro e l’avvento del colore hanno reso ancor più arduo per il cinema tentare di restituire alla messa in scena questa sorta di patina sepolcrale, misto sonnolento di ombra e polvere. E difatti, mi permetto di dire, il medium che oggi si presta meglio a trasmettere la sensazione dell’orrore bianco è probabilmente il fumetto giapponese, il manga. È il caso, per esempio, del raggelante La musica di Marie di Usamaru Furuya, o del sofisticato Il clan dei Poe di Moto Hagio, che non per nulla accosta ancora una volta la malinconia dei vampiri al nome di Edgar Allan Poe: la narrazione è costantemente immersa in uno stile grafico soave, un sedativo per gli occhi attraverso il quale le tavole sembrano via via sbiadire e i personaggi muoversi come dietro un vetro appannato che ci impedisce di entrare in comunione con loro. Un sortilegio che assomiglia molto al modo in cui l’anonimo protagonista di Fight Club descriveva l’insonnia: “Nulla è reale, tutto è lontano, tutto è una copia di una copia di una copia”. Nell’orrore bianco, il senso di autenticità è perduto. Non c’è empatia né sintonia. È un orrore dormiente, che ci lambisce a poco a poco, e di cui prendiamo coscienza soltanto a posteriori, una volta che l’incantesimo si è spezzato e i nostri occhi ricominciano ad aprirsi.
Lo dico da fanboy: erano anni che attendevo una ristampa de Il vampiro che ride di Suheiro Maruo. Coconino Press aveva scommesso su questo piccolo capolavoro a inizio Duemila, e difatti quelle copie sono state per lungo tempo introvabili. O vendute a prezzi indecenti, certo. Attorno a quest’opera si era creato una sorta di culto segreto, una setta di appassionati che in qualche modo godeva all’idea di avere tra le mani una perla passata in sordina al grande pubblico e riservata alle attenzioni di una cerchia ristretta. Prima di questa ristampa, e non esagero, Il vampiro che ride veniva letto come un grimorio, un libro di magia nera da maneggiare al calar del sole e di cui discutere sui vecchi blog dai nomi complicati, quelli di cui i genitori dei miei coetanei si sarebbero preoccupati, pur non essendo in grado di pronunciarli.
Reperibilità a parte, Il vampiro che ride è l’opera dell’orrore bianco dei nostri giorni, e questo per diverse ragioni. Tanto per cominciare, Maruo, un mangaka emarginato che dice di non conoscere nemmeno il lavoro dei suoi colleghi, dichiara che Vampyr sia stato la sua principale fonte di ispirazione nella stesura della storia. Difficile dargli torto: il bianco è il colore preponderante che riempie le tavole, un protagonista ingombrante che fa del nero il suo umile comprimario. Che anestetizza le orripilanti scene della trama immergendole in una foschia spettrale, come se le innumerevoli morti, violenze e sevizie del racconto rimanessero sospese nella nebbia, e per questo percepite come meno reali, quasi accettabili, se non addirittura giustificabili.
Capiamoci, Maruo appartiene a tutti gli effetti al genere dell’ero-guro, un canone narrativo che, proprio come suggerisce il nome, mescola l’erotismo al grottesco, il sesso esplicito al macabro. E a darsi alla pazza gioia non sono i vampiri, entità sofferenti e timorate che si aggirano in una Tokyo depravata, quanto piuttosto gli esseri umani, che qui fanno la figura dei veri e propri mostri, creature incontentabili, opportuniste, la cui condotta non è legittimata da alcuna discolpa di sorta. Il vampiro agisce per esigenze biologiche, è un outcast che combatte per sopravvivere, che deve sottostare a delle regole ferree. Che sconta per l’eternità il fatto di aver ceduto, per un solo e irrecuperabile istante, alla tentazione di un godimento sfrenato. Un grammo di godimento per il quale, se potessimo, firmeremmo con ben altra roba che il sangue.
L’umanità è d’altra parte una specie ottusa che non impara dai propri errori, che ogni volta che avrà la possibilità di scegliere, sceglierà puntualmente l’opzione peggiore, in barba alle conseguenze e alle lezioni del passato. Lo vediamo bene nella transizione tra il prologo del manga, in cui una catastrofe improvvisa devasta la civiltà intera e riduce gli uomini alla barbarie, e lo sviluppo della storia, ambientato in una società capitalista hobbesiana senza memoria, in cui gli adulti molestano senza pietà i giovani e i giovani si rendono merce sessuale degli adulti per concedersi brevi escamotage anestetici (droghe, abiti firmati, pagelle impeccabili).
Eppure, se proviamo a confrontare le tavole di Maruo con quelle di altri artisti del genere (penso per esempio a Shintaro Kago), qualcosa non torna: l’ero-guro è pulsione grezza allo stato puro, la fantasia posta al servizio del male fine a se stesso, eccessivo, diretto, blasfemo. Molti dei suoi esponenti se ne fregano dell’espressionismo mitteleuropeo, preferendogli invece soluzioni gore vicine a quelle del giallo all’italiana, dei film di Dario Argento o di Mario Bava. E se leggendo un racconto ero-guro rimarrete disgustati, avrete fatto la fortuna dell’autore, perché l’obiettivo (spietata critica sociale a parte) è esattamente quello. Nel caso di Maruo, l’esito non è lo stesso. La sensazione che si ha quando si chiude Il vampiro che ride non è di repulsione, ma di narcosi. Una narcosi piacevole, un dolore caldo come quello della melanconia, e per questo difficile da rendere a parole.
L’effetto ultimo del manga, che è lo stesso dell’orrore bianco, è di lasciarci inermi di fronte alle conseguenze della violenza. Tutto scorre e nulla ha senso. Un sentimento a cui oggi il continuo bombardamento di notizie ci ha reso più che mai avvezzi. E di cui, forse, ci accorgeremo solo un domani. Quando il torpore avrà lasciato il passo alla brutalità della guerra, delle morti senza senso e, soprattutto, alla sensazione che noi tutti, nessuno escluso, siamo parte dell’opera di cui ci illudiamo di essere semplici spettatori passivi.
Riferimenti bibliografici
P. Cristalli, A. Cavazza, L. Virgolin, Vampyr, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2022.
Suehiro Maruo, Il vampiro che ride, Coconino Press, Roma 2024.