Nei difficili tempi in cui viviamo, dove amplificato vige il tabù del contatto, potrebbe accadere che di fronte alle immagini sopperiamo all’impossibilità di toccare. Sentiamo forse che le immagini hanno a che vedere con il nostro corpo, laddove – di fronte a ciò che guardiamo – il nostro desiderio è tenuto in movimento. Uno strano movimento, però, in quanto di fronte a un’immagine il nostro desiderio si muove necessariamente in contro-tempo – necessariamente: perché in un’immagine è sempre in questione un diverso modo di fluire del tempo. Eppure, è proprio lo scarto del tempo ordinario, che è in questione nell’immagine, che agisce sul nostro corpo, e che forse, di questi tempi, può decidere anche della sua sopravvivenza. È a partire dalla tensione tra il desiderio del contatto e la sua interdizione, che si presenta nell’immagine, che prende le mosse il libro di Attilio Scarpellini, Il tempo sospeso delle immagini (Mimesis, 2020). Il libro di Scarpellini è composto da tre saggi, scritti dall’autore in diverse occasioni, che sono tenuti insieme da una questione fondamentale: la capacità dell’immagine di arrestare lo scorrere ineluttabile del tempo ordinario.
Nel primo movimento, L’impronta. Trattenere i corpi, toccare le immagini, Scarpellini mostra come l’impossibile protezione di un istante nello scorrere inesorabile e inarrestabile del tempo, che l’immagine rende miracolosamente possibile, abbia a che vedere proprio con il toccare e il trattenere: con il desiderio di trattenere un corpo, letteralmente di ri-trarlo dalla morte. Come rivela ad esempio la storia della Fanciulla di Corinto narrata da Plinio il Vecchio, l’atto di rendere un’immagine è mosso dal desiderio di arrestare lo scorrere del tempo, che inevitabilmente porta con sé il terrore della sparizione di una presenza. Fin quando uno sguardo può posarsi sull’immagine, che altro non è, secondo Scarpellini, «la risposta del desiderio all’assenza» (Scarpellini 2020, p. 20), colui che è ri-tratto è sospeso «tra un prima che gli sta alle spalle e un dopo che nell’immagine non ha mai corso» – sostiene l’autore commentando la fotografia A Falling Man, scattata da Richard Drew l’11 settembre 2001.
Il desiderio che ogni immagine evoca, però, si mantiene in una perenne tensione; non può cioè trovare effettivo appagamento. Come mostrano le differenti forme della rappresentazione evocate da Scarpellini, la possibilità di entrare corporalmente in contatto con l’immagine è interdetta. Se infatti la pittura e la fotografia possono ancora aprire (almeno teoricamente) al tatto e al contatto – come pensa Antonella Anedda nella prefazione al libro –, nelle immagini tecnologicamente riprodotte si concretizza l’interdizione del tatto e del contatto. Ma è proprio in quell’irrimediabile distanza che – paradossalmente – lo sguardo si ritrae dalla morte e dalla sparizione definitiva: un uomo che cade dalle Torri Gemelle non smetterà mai di cadere e noi non avremo una rappresentazione della sua morte: «Per morire» – secondo Scarpellini – «bisognerebbe ritrarsi nell’accecata intimità del soggetto, smettere di vederlo, perdere ogni confine nel contatto con lui […] tranne a non rendersi ben presto conto che la distinzione e la distanza sono alla base di ogni possibilità di amore e contatto» (ivi, p. 21), perché la morte è, in realtà, nel contatto assoluto.
Come sostiene Jean-Luc Nancy, ogni soggetto è sempre soggetto al fuori, ossia è soggetto all’altro e al suo tocco (Nancy 2017, p. 18). E per tentare di fugare la possibilità insormontabile – la morte –, il contatto deve mantenersi in tensione: nel suo ritmo, deve battere il tempo dell’avvicinamento e dell’allontanamento, celebrando nella separazione la possibilità dei corpi di rincontrarsi; nel ritmo il desiderio e la sua continua (e sempre rinnovata) possibilità di emergere (o di insorgere) – come Scarpellini suggerisce evocando la video-installazione Emergence (2002) di Bill Viola. All’emergenza, però, si lega irrimediabilmente l’arretramento: paradigmatica, a questo proposito, è la rappresentazione del Noli me tangere. Nell’incontro tra Maria Maddalena e il Cristo risorto, a cui si ispirano, tra altri, i dipinti di Tiziano, Bronzino e di Cano è cruciale, nota Scarpellini, il corpo del Cristo risorto che si discosta dalla Maddalena. Cristo non può essere trattenuto: deve sottrarre la sua presenza, perché è nel suo ritrarsi che è racchiuso «il segreto stesso del suo donarsi», ossia del suo apparire.
Nella resurrezione di Cristo, nel «levarsi del suo corpo», è infatti racchiuso il senso più proprio della rappresentazione: «Rendere intensa la presenza di un’assenza in quanto assenza» (Scarpellini 2020, p. 36) – sostiene Scarpellini con Nancy. Solo nel contatto interdetto, dunque, l’immagine può rendere l’assenza indefinitamente assente nella sua presenza; può permettere di sostare nel confine tra vita e morte, per il tempo di un istante. È nell’istante dell’immagine che infatti si compie il miracolo; ossia: la risoluzione del tempo che inesorabilmente scorre e che conduce alla sparizione della presenza; l’eternizzazione di un frammento di tempo all’interno di uno spazio. Allora un’immagine può rendere eterno un istante. È quanto accade nel racconto di Borges, Il miracolo segreto (1944), attorno a cui ruotano le riflessioni di Scarpellini sull’immagine nel secondo movimento, intitolato Fermo-immagine. Uscire dal tempo, entrare nel tempo.
Il miracolo segreto racconta di Jeromir Hladik, uno scrittore boemo che sta per essere fucilato dai nazisti. Nell’istante che precede l’inevitabile esecuzione, Hladik riceve da Dio la grazia: la possibilità, per il tempo in cui una goccia rotola sulla sua guancia, di completare, con l’uso della sola memoria, la sua opera I nemici. Tra l’ordine del plotone e l’effettiva esecuzione trascorre, nella mente di Hladik, un anno (pp. 42-43). Il tempo si contrae, dunque, per grazia divina, nella mente di Hladik: nell’eternità di un istante, Hladik vive quella che Giorgio Agamben con Paolo di Tarso chiama ricapitolazione, ossia il tempo in cui tutto il passato – tutte le immagini di una vita che si presentano, cristallizzate in una monade, di fronte ai propri occhi – ricapitolandosi acquista il suo vero significato ed è salvo. Nell’istante eternizzato che precede la sua morte, ci dice Scarpellini, Hladik vive le sue mille morti attraverso la sua memoria, una memoria che appare come una «propedeutica e un’anticipazione della salvezza» (Agamben 2000, p. 76). Ed è ancora attraverso quell’unico strumento che ha a disposizione – la memoria – che Hladik conclude la sua opera: «Lo studioso praghese della qabbalah – nota Scarpellini – ritorna a quel tempo in cui la torah e la preghiera istituivano gli ebrei alla memoria, per liberarli, dice Benjamin, dal “fascino del futuro”» (Scarpellini 2020, p. 53). Come ancora chiarisce Agamben nel suo commento alla Lettera ai Romani, il tempo (messianico) della salvezza non è orientato verso il futuro, perché è innanzitutto col passato che «dobbiamo regolare i conti» (Agamben 2000, p. 77).
L’opera che Hladik porta a compimento dentro di sé non agisce sul futuro: non cambia il corso degli eventi. Al termine dell’anno concesso da Dio, il plotone d’esecuzione spara. Quell’opera che, ci dice Scarpellini con Gilles Deleuze, come ogni opera (d’arte) resiste al tempo e alla morte, viene comunque travolta dal corso degli eventi. Eppure, è proprio nella distanza tra il «tempo della vita e della presenza e un tempo dell’opera e della rappresentazione» che si apre una possibilità – se non per Hladik, almeno per noi spettatori che ci troviamo di fronte all’immagine della goccia d’acqua immobile sulla sua tempia –, ossia quella che Walter Benjamin, nella diciassettesima Tesi di filosofia della storia, definisce «una chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso» (Scarpellini 2020, p. 56-59). Nell’istante dell’apparizione, allora, nella possibilità di redenzione del passato, l’immagine può aprire al futuro, trafiggendo lo spettatore nel tempo “ordinario” in cui vive. È nella sospensione del tempo ordinario e dunque della morte – perché, come ricorda Scarpellini, «la morte è all’origine della nostra percezione temporale» –, che lo spettatore può accogliere e decidersi di fronte all’immagine che insorge.
Solo nella sospensione del tempo ordinario è dunque possibile l’emergere della “chance rivoluzionaria” di cui parla Benjamin; nell’istante decisivo e indecidibile in cui l’immagine è contemplabile nella sua irrimediabile lontananza, ossia nell’impossibilità di trattenerla e di possederla. L’interdizione del Cristo alla Maddalena si ripresenta: noli me tangere – il monito dell’immagine –, perché, come Scarpellini mostra con Nancy, è solo nella ritrazione che l’assenza in quanto tale può presentarsi. Cristo deve tornare a Dio; l’immagine può così interrogarci nella sua lontananza. Affinché l’immagine ci interroghi, è dunque necessario mettersi all’ascolto – alla visione – della sua peculiare forza auratica, che significa: riconoscere che l’immagine non ci appartiene, e che la cosa ritratta non può essere padroneggiata – vederla in Dio, per dirlo con Agamben (Agamben 2019, p. 96). Che innanzitutto oggi significa: il rifiuto dell’immersione nel continuum delle immagini spettacolari attraverso l’esercizio della distanza (ivi, p. 54). Benché la distanza in questione non sia spaziale, nel terzo movimento, Spettatore, spettacolo, sogno. L’avvenire di un’illusione, Scarpellini riflette sul teatro in quanto forma di rappresentazione in grado di «abbandonare la valanga spettacolare con cui la nostra epoca ci aggredisce» (Scarpellini 2020, p. 86).
Scarpellini riflette sul ruolo dello spettatore a teatro mettendolo in relazione non con lo spettacolo, bensì con l’attore. Come accade di fronte all’immagine, anche l’attore di fronte al quale ci troviamo – una sorta di nostro “alter ego” – ci interroga con il suo gesto e con il suo sguardo. E ci invita a credere che, come in un sogno, nel tempo sospeso della scena teatrale, i gesti e gli sguardi dell’attore potrebbero diventare i nostri, se solo non avessimo – noi spettatori – la premura di ricacciare, con l’applauso finale, quella sorta di spettro che, nell’istante in cui si presenta, vuole indurci a una trasformazione. E tuttavia – se solo si presta ascolto e visione – si scopre che una trasformazione è in atto, nel momento in cui si esce dalla sala: se lo spettacolo infatti – sostiene Scarpellini con Claudio Morganti – «finisce quando si esce dalla sala», il teatro «comincia quando si esce dalla sala» (ivi, p. 93). Sedimentazione della rappresentazione nel nostro corpo: vocazione est-etica (e politica) dell’immagine.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il tempo che resta: un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
Id., Studiolo, Einaudi, Torino 2019.
J. Nancy, Rühren, Berühren, Aufruhr, in AA. VV. Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017.
Attilio Scarpellini, Il tempo sospeso delle immagini, Mimesis, Milano 2020.