Attraverso la camera delle meraviglie

di SIMONA ARILLOTTA

Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori, la mostra ideata dal regista Wes Anderson e dall’illustratrice e artista Juman Malouf. 

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Mi reco a visitare la mostra Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori, il progetto espositivo ideato dal regista Wes Anderson e dall’illustratrice e artista Juman Malouf, in un piovoso e freddo pomeriggio di una domenica di fine novembre. Scelta infelice, ma ne sono consapevole solo quando vedo la fila che, dalla biglietteria, si snoda fin quasi ai cancelli d’ingresso della Fondazione Prada. L’attesa è lunga, ma ormai non posso fare altro che aspettare. Dietro di me altri aspiranti visitatori chiacchierano, poi la domanda: “Oh, ma tu lo sai chi è questo Spitzmaus?”: Sorrido. Non è la prima volta che mi capita di trovarmi in queste situazioni dal sapore vagamente alleniano – ricordo quando, dopo la proiezione del film di Loznitsa, Austerlitz (2016), incontrai il disappunto di due anziane signore che si aspettavano di vedere un film sulla battaglia napoleonica – ma improvvisamente mi accorgo che no, neanche io so cosa o chi sia “questo” Spitzmaus. Non mi sono documentata. Poco male: ho una qualche familiarità con il lavoro di Anderson, sono quasi certa di potermi agevolmente districare nella comprensione di ciò che sto per visitare. La fila scorre, guadagno l’ingresso, ma una volta oltrepassata la soglia della sala che ospita la mostra, ho come l’impressione di essere catapultata in uno spazio-tempo altro: sono nel luogo delle meraviglie, Alice in una labirintica Wunderkammer.

Sono 538 gli oggetti esposti nel Podium della Fondazione Prada, la sala trasformata per l’occasione nella complessa macchina espositiva pensata da Anderson e dalla sua compagna Malouf. 538 tra naturalia, mirabilia e altre curiosità, provenienti da 12 collezioni del Kunsthistorischen Museum e 11 dipartimenti del Naturhistorisches Museum, e dis-posti attraverso un curioso sistema di camere, corridoi, vetrine, teche, espositori che rievocano la tradizione delle siepi rinascimentali del giardino all’italiana. L’arco temporale ricoperto dalla selezione è vastissimo: dal 3000 a.c., data alla quale risale l’oggetto più antico, un bracciale di perle di faience egizia, al 2018, data delle 3 uova di emù provenienti dal Naturhistorisches Museum.

Mentre mi aggiro alla ricerca del sarcofago di Spitzmaus – che scoprirò poi essere l’oggetto corrispondente al numero 391 – riconosco alcune tracce dell’estetica andersoniana: le diverse stanze sono ricoperte da moquette colorata, cromie dal gusto retrò più vicine all’atmosfera malinconica e nostalgica de I Tenenbaum (Anderson, 2001) che non a quella di film più recenti, ma soprattutto diverso dagli esiti delle precedenti collaborazioni tra il regista texano e la maison Prada – basti pensare al Bar Luce progettato da Anderson per la sede meneghina della Fondazione, e che trova in Castello Cavalcanti, il corto realizzato per Prada nel 2013, la sua forma filmica prima che architettonica. E ancora: la cura matematica dei dettagli, le simmetrie, l’utilizzo della luce, persino la scelta degli oggetti sembra – in parte – appartenere all’universo filmico di Anderson. Ma si tratta davvero solo di questo, ovvero della volontà del cinema di Anderson di migrare verso altri spazi – in questo caso quello espositivo – o dell’immaginario di Malouf di farsi mostra?

Ritorno indietro, ricomincio la mia visita, traccio nuovi percorsi, questa volta mettendo da parte la mia conoscenza pre-formata dalla visione dei film di Wes Anderson e abbandonando la piccola guida che serve ai visitatori per potersi orientare. Gli oggetti esposti, infatti, hanno come unica indicazione un numero che corrisponde, sull’opuscolo/mappa, alla descrizione corretta. Ma la progressione numerica non coincide ad una scansione cronologica lineare, progressiva appunto, né ad alcuna altra forma di affinità. La ragione è certo insita nelle intenzioni che animano la mostra, ossia quella di mettere in discussione il sistema curatoriale e di costruire una diversa narrazione rispetto a quella dei canoni tradizionali delle istituzioni museali, ritornando ad una forma di displaying che ha il suo modello nella Wunderkammer cinquecentesca.

Per ben due anni, Anderson e Malouf hanno lavorato nei due musei viennesi, su di un corpus di oltre 4 milioni di oggetti appartenenti ad un periodo storico di circa 5000 anni, selezionando gli oggetti, animati dal tentativo di superare i limiti imposti dal paradigma epistemico dominante: l’archivio. Nel sottrarli alla loro sorte di reperti e alla loro mera catalogazione (delle opere e dei manufatti selezionati, circa 350 oggetti non erano mai usciti dai depositi dei due musei viennesi), i due curatori re-immettono i diversi pezzi in una nuova e diversa pluralità, nel tentativo di creare differenti connessioni, altre e possibili analogie. Come afferma lo stesso Anderson, l’obiettivo di questa peculiare disposizione dei lavori in mostra è, infatti, quello di proporre un nuovo modo di studiare l’arte e l’antichità. Da qui la necessità della Wunderkammer come macchina espositiva in grado di accogliere materiali eterogenei – quadri, gioielli, statuine cinesi, pezzi di malachite, abiti, monete, animali, ecc. – e rigiocarli nel montaggio di tempi diversi, lasciando al visitatore la possibilità di costruire il proprio percorso conoscitivo e accedere così ad un significato mai definitivo, ma sempre mobile, in costante trasformazione.

Il tentativo di Anderson e Malouf si inserisce nel solco di una problematizzazione della storia dell’arte che da molti anni, ormai, anima il dibattito sulla disciplina. Senza voler entrare nel merito di una discussione troppo ampia da poter essere risolta in poche battute, mi sembra, tuttavia, che questo tentativo da parte dei due curatori di montare diversamente – e anacronisticamente – gli oggetti per produrre nuove corrispondenze, non riesca ad andare oltre le proprie buone intenzioni. Anzi: finisce per schiantarsi rovinosamente su se stessa, collassando sotto il peso della propria vocazione manieristica. L’apparente incomunicabilità degli oggetti rimane tale, non vi è alcuna ri-apertura della storia, ma solo un generale senso di spaesamento da parte dei visitatori. E il sarcofago di Spitzmaus altro non è che una piccola scatola di legno, una tomba contenente la mummia di un toporagno (spitzmaus in tedesco, appunto) che, dal IV a.c. è fermo, bloccato nella sua immobilità. Così come tutto il resto della mostra, in fondo.

Nell’abbandonare il Podium, il percorso è – quasi – obbligato, e finisce per condurmi all’altro polo andersoniano della Fondazione Prada: il Bar Luce, dove mi aspetta l’ultimo passaggio della mia visita, l’acquisto dei biscotti a forma di sarcofago di Spitzmaus – la cosa di certo più divertente dell’intera mostra. E così eccomi, esco da una camera delle meraviglie per entrare in un’altra, diversa Wunderkammer. Di soglia in soglia, insomma.

*Le immagini presenti nell’articolo sono foto di Andrea Rossetti. Fonte: Fondazione Prada.

Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori, Fondazione Prada, Milano, 20 settembre 2019 – 13 gennaio 2020.

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