Peter Sloterdijk ci ha abituati alle sue piroette filosofiche. Uso la metafora della piroetta non per sminuire l’importanza del contributo del filosofo tedesco, ma per restituirne la giusta immagine. Sloterdijk, di regola, all’inizio dei suoi testi promette grandi rivolgimenti del pensiero, che si realizzano poi attraverso abili e agili gesti di rimescolamento delle carte, movimenti che scompaginano le figure consuete della riflessione filosofica. È un esercizio rischioso, che può anche risolversi in una semplice esibizione di virtuosismo. O che può squarciare i fondali entro i quali si svolge la rappresentazione del dibattito filosofico, aprendo nuove strade al pensiero.

Il rimorso di Prometeo, di recente uscito per i tipi di Marsilio, non fa eccezione alla regola appena enunciata: è un breve e denso saggio, ricco di spunti, di riletture dei classici a tratti illuminanti a tratti spiazzanti, di prese di posizione mai scontate. La tesi d’apertura del saggio è che la «tecnologia essenziale» – la più antica e quella imprescindibile – tra quelle inventate da homo sapiens sia «l’arte di dominare il fuoco», che l’autore chiama «pirotecnica» (Sloterdijk 2024, p. 13). Siamo animali pirotecnici: la manipolazione del fuoco fa parte da sempre delle nostre prassi culturali, condizionando perfino la nostra natura. La distinzione tra crudo e cotto, impossibile senza il fuoco, non è solo uno dei grandi criteri per distinguere culture umane e non umane, ma è anche una caratteristica così radicata della nostra alimentazione, al punto di aver alterato il funzionamento dei nostri apparati digestivi, divenuti intolleranti a molti cibi crudi. Il fuoco è all’origine di quella che forse è la più antica industria umana: la produzione di utensili e di armi. Il fuoco, come vuole Lévi-Strauss, ha un significato pratico, ma anche simbolico, mitico, religioso, ludico e artistico.

Il fuoco è la chiave per capire anche perché, per designare quella entità insieme astratta e concreta che è la materia, il greco antico usi il termine hyle, che significa appunto «legna», «boschi», «foreste» (ivi, p. 14). Non dobbiamo pensare al legno come materiale a disposizione di un fare produttivo. Sloterdijk non richiama, infatti, la più nota distinzione aristotelica tra “materia” (hyle) e “forma” (morphe), ma rinvia piuttosto a quella omerica tra “materia” e “forza” (dynamis). La materia non è ciò che si presta a essere plasmato dalla mano umana, ma l’energia che mette in movimento il processo produttivo. Le “risorse” sono la materia di cui ci parla la lingua della poesia e della filosofia fin dalle origini dell’umanità (ivi, p. 16). Uno dei grandi assenti, o dei grandi rimossi, di questo breve saggio è Heidegger. Si potrebbe benissimo dire che l’oggetto reale, il Gegenstand, era già da sempre destinato a trasformarsi in Bestand, in risorsa materiale. Sloterdijk però rifiuta questa visione destinale e pessimistica. Semplicemente noi moderni non abbiamo capito fino a che punto il pensiero produttivo degli antichi fosse già ossessionato, come lo siamo noi oggi, dal problema degli approvvigionamenti energetici necessari per il mantenimento delle funzioni produttive su cui si sostiene una civiltà.

Lo stesso lavoro umano, come ha intuito Marx, nella misura in cui è un «processo che si svolge fra l’uomo e la natura» (ivi, p. 11), è un’attività che brucia energie. Il lavoro è metabolismo modificato artificialmente, tecnica di dominio del fuoco che attiva e alimenta un metabolismo generalizzato del vivente umano e della natura tutta. Questo rapporto metabolico mediato dal fuoco dà vita, grazie agli effetti e ai prodotti del lavoro, a processi di edificazione o trasformazione delle strutture economiche e sociali tipiche della civiltà umane. Si potrebbe dire che per Sloterdijk la modernità è il tentativo di fare i conti con le conseguenze vuoi economiche vuoi sociali della dipendenza energetica tipica di tutte le tecnologie umane. Non a caso il filosofo rintraccia la genealogia del termine “sostenibilità” (Nachhaltigkeit), coniato nel 1713 dal proto-ecologista tedesco Hans Carl von Carlowitz, nell’idea di dover assicurare un adeguato ricambio delle risorse energetiche a fronte della crescita di domanda imposta dal progresso delle tecnologie produttive (ivi, p. 20). E non a caso ritrova nel socialista pre-marxista Proudhon l’idea della macchina come «simbolo della libertà umana». La macchina non è il simbolo della libertà, chiosa Sloterdijk, ma di certo è il suo “agens”, nella misura in cui non è solo il dispositivo attorno a cui si riorganizza il lavoro, ma è anche ciò che apre l’orizzonte a una nuova configurazione del tempo e degli spazi di vita.

Si potrebbe quasi desumere un principio di politica da queste osservazioni. Tocchiamo qui l’altro possibile rimosso di questo saggio: un mancato confronto con Bernard Stiegler, il filosofo francese scomparso di recente, che è stato tra i più originali pensatori della tecnica degli ultimi decenni. Tra l’altro il sottotitolo del primo volume de La tecnica e il tempo, il libro più importante di Stiegler, sembra fare quasi eco al titolo del saggio di Sloterdijk. Quest’ultimo s’intitola Il rimorso di Prometeo, mentre il libro di Stiegler ha per sottotitolo La colpa di Epimeteo. Epimeteo nel mito è il fratello lento di comprendonio del geniale Prometeo: quello che arriva dopo, après-coup, a capire le cose. La proposta politica nel pensiero di Stiegler è esplicita, articolata e saldamente ancorata in un orizzonte progressista. Il confronto sarebbe stato tanto più interessante in quanto le tesi di Sloterdijk lasciano invece lo spazio per un’interpretazione conservatrice.

È plausibile infatti immaginare che, in questa ipotetica teoria politica di Sloterdijk, l’agire politico possa avere per oggetto o l’organizzazione del lavoro (funzione sociale) o la gestione delle risorse nel quadro di un equilibro dinamico tra potenza produttiva ed energia consumata (funzione economica). La politica sarebbe la mediazione dei possibili conflitti tra le due funzioni. Pensiamo all’economia schiavistica, tipica di molte società dell’antichità: un basso consumo di energie fossili, che oggi sarebbe altamente auspicabile, veniva surrogato da un impiego massiccio di manodopera degradata a pura risorsa (p. 23 e sg.). È chiaro l’intento provocatorio dell’esempio scelto. Ma è altrettanto evidente il suo potere chiarificatore: non è possibile immaginare un programma politico dotato di qualche respiro senza tenere conto dei fattori in campo. Tutto il resto, a partire dall’ecologia, è derivato dalle funzioni economiche e sociali che sono alla base della vita umana e della nostra interazione con l’ambiente.

Per Sloterdijk affrontare i problemi ambientali oggi all’ordine del giorno – dal cambiamento climatico alla deforestazione, fino al possibile esaurimento delle risorse vitali ed energetiche – non significa abdicare del tutto alla prospettiva fin qui aperta dall’azione di homo sapiens e al suo irriducibile antropocentrismo. Se vogliamo affrontare seriamente la questione ecologica, dobbiamo piuttosto riconoscere la nostra natura di specie animale, che si trova in un rapporto di consumo particolarmente disequilibrato delle risorse che l’ambiente ci offre. Siamo, insomma, una specie la cui impronta ambientale pesa troppo e rischia di avere conseguenze irreversibili per il pianeta che ci ospita e per noi stessi che lo abitiamo. Ma non possiamo rinunciare ai bisogni e ai consumi che ci impone la nostra condizione animale. Se lo facessimo, ci condanneremmo comunque all’estinzione, rendendo così del tutto indifferente l’alternativa tra politiche ecologiche e consumo dissennato delle risorse.

Dobbiamo fare invece i conti con la «vergogna prometeica» – Sloterdijk prende in prestito l’espressione da Günther Anders – che, come specie altamente tecnologizzata, ci accompagna fin dalle origini. Non è del tutto chiaro in cosa consista questo sentimento di vergogna nella prospettiva di Sloterdijk. Provo a dare un’interpretazione: gli esseri umani provano vergogna di fronte all’inadeguatezza dei risultati della loro azione produttiva. Non si tratta di vergogna per l’imperfezione dei prodotti, messi a confronto con i prodotti della natura. È una vergogna per l’inadeguatezza dei criteri, dei valori, delle idee e delle regole che gli esseri umani elaborano per controllare le conseguenze del loro agire, che appare sempre insufficiente di fronte alla potenza della natura.

Riferimenti bibliografici
G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri 2007.
M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002.
B. Stiegler, La tecnica e il tempo, vol. 1 La colpa di Epimeteo, Luiss University Press.

Peter Sloterdijk, Il rimorso di Prometeo. Dal dono del fuoco al grande incendio del pianeta, Marsilio, Venezia 2024.

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