Nel 1986, alla vigilia dei Mondiali di calcio in Messico, raccolsi gli scudetti metallici dei paesi che avevano scritto il proprio nome nell’albo d’oro della manifestazione. Uscirono periodicamente da un giornale sportivo, dodici in tutto, tanti quanto il numero di edizioni fino ad allora disputate, anche se i paesi celebrati erano solo sei, gli unici che finora avevano vinto. Quelli di chi aveva vinto i Mondiali più di una volta, che un occhio distratto avrebbe chiamato doppioni, nella mia immaginazione portavano peso e sostanza al prestigio di quel paese e tra questi avevo una particolare simpatia per la coppia tintinnante dell’Uruguay, di cui al massimo qualche libro di geografia poteva svogliatamente chiedere di memorizzarne il nome della capitale.
Anni dopo, ho dovuto ricordare quel gioco gustoso di mettere in fila scudetti metallici di campioni del mondo, quando ho letto le pagine dell’uruguayano Eduardo Galeano, un uomo in cui l’amore per il calcio e la capacità di disgustarsi per la desolazione di ogni ingiustizia e di ogni prepotenza hanno coabitato con dolcezza. Una dolcezza che ha fatto di lui, finché visse, un eretico errante, sempre buono per essere additato a capro espiatorio tanto da gente di destra, che «pensa che il popolo pensi con i piedi», quanto di sinistra, che «pensa che il calcio sia l’oppio che aiuti a non pensare».
Erratica è stata la vita di Galeano, in fuga dalla dittatura militare uruguayana, poi da quella argentina, quindi di ritorno dalla Spagna nella terra d’origine, senza mai scrollarsi di dosso quel sacro bisogno di definire la propria identità cacciando naso e occhi nella polvere nascosta sotto i tappeti dell’interesse monetario e della convenienza politica. È stato un suo libro, Le vene aperte dell’America latina, che il presidente venezuelano Chávez regalò al suo omologo statunitense Obama nel 2009. La portata simbolica di questo regalo fu straripante e confermò che quel libro, a quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione, non aveva perso in attualità. Allora come oggi.
In Splendori e miserie del gioco del calcio, Galeano, dal punto di vista dell’amante dell’indicibile bellezza del calcio, sublima in un certo senso gli argomenti che pulsano nelle righe de Le vene aperte dell’America latina, e lo fa sempre con la classe della persona in cui convivono il giornalista di razza, “segugio della notizia”, e lo scrittore raffinato che si esalta nell’uso di una parola che, pezzo a pezzo, smonta l’accerchiamento del nemico e riesce, se non a sconfiggerlo, almeno a denudarne l’inanità. “Senza perdere la tenerezza”, per dirla con le parole di un suo amico.
La scrittura di Galeano, nei libri già citati così come in Memoria del fuoco, Figli dei giorni, Il libro degli abbracci, conserva una ferrea coerenza interna pur offrendosi, pagina dopo pagina, con rapsodica leggiadria. Il libro Chiuso per calcio, per i tipi di Sur, raccogliendo suoi testi scritti in un ampio periodo di tempo e per le occasioni più disparate, rende omaggio già nella struttura formale alla convinzione di Galeano di non dover inseguire una fredda idea di sistematicità, meno che mai di oggettività, per mostrarsi capaci di dire qualcosa che sappia insieme convincere ed emozionare.
Il titolo viene da un testo in cui l’autore, non senza un certo autocompiacimento, che però ce lo fa sentire così umanamente vicino alle nostre piccole debolezze piuttosto che alle polverose virtù che ci affanniamo ad esibire in vetrina e nei curricula, racconta dell’avviso che suole mettere sulla sua porta di casa durante un mese intero, quando nessuna urgenza può pressarlo più del bisogno di tastare il polso all’universo-mondo, sbirciando famelicamente ogni atto di quella sua metafora fedele e teatrale che, attraverso simboli dal potere urticante, è lo “showdown” di un campionato del mondo di calcio.
La curatela del libro, nel modo in cui sceglie di mettere in fila i testi dell’autore, senza necessariamente assecondare principi cronologici, è efficace nel prendere il lettore per mano e mostrargli che, sullo sfondo dell’amore che Galeano serba per il bel calcio, non si agita alcuna vena romantica di presunti paradisi perduti, ma piuttosto la presenza a sé stesso di chi, pur osservando con occhio clinico la deriva di poteri che, annusando l’enorme profitto economico che si può estrarre da un gioco che muove la passione di decine di milioni di persone in ogni angolo del pianeta, ostinatamente si rifiuta di darsi per vinto e continua a credere che ci sarà sempre qualche campo di calcio in cui, attraverso una giocata di bellezza fulminante, non attesa né programmata, questo gioco continuerà a urlare il piacere di essere un gioco, spezzando le catene che pretendono di farne un lavoro, sottomesso alle leggi del rendimento, in cui il piacere di giocare viene narcotizzato dal dovere di vincere.
Galeano è stato un osservatore molto attento delle subdole strategie che le grandi multinazionali dell’abbigliamento sportivo, come delle bibite gassate e del fast food, usano per mettere il proprio cappello su un’incoronazione che avviene in diretta planetaria. Al punto da spingersi, finito un Mondiale, a fare un bilancio su chi erano stati i veri vincitori dietro i vincitori di facciata, se la Coca Cola o la Pepsi, la Nike o l’Adidas.
Ma proprio perché così consapevole che sul corpo dello spettacolo calcistico si sono gettati a peso morto interessi economici di cui la FIFA, il maggiore organismo mondiale della politica del calcio, si presta in modo sempre meno velato ad essere “cerimoniere servile”, Galeano aguzza il suo sdegno per i calciatori che divengono esemplari perché «non bevono, non fumano e non giocano» e che in campo, ansiosi di assumere pose fotogeniche, si rivelano servi fedeli e ingloriosi dei padroni del vapore che fingono di occupare posizioni subalterne in tribuna d’onore.
E in una cerimonia come un Mondiale di calcio, su cui gli occhi del mondo sono puntati per intere settimane, i poteri economici che hanno scritto la scaletta in ogni particolare, come quelli politici che si servono di questa quinta teatrale per godere di un implacabile soft empowerment, nulla può essere temuto più di un deragliamento dal copione già scritto, il deragliamento pilotato da un giocatore che con il gesto di un istante riconduca il calcio alla bellezza di giocare per il piacere di giocare e così facendo riconcili milioni di persone con un piacere gratuito e inspiegabile, della cui emersione, chi avrebbe interesse a farlo, ancora non riesce a sopprimerne del tutto il rischio.
Rovesciare il tavolo per urlare il proprio diritto. E non quello di chi ti accarezza per rabbonirti e farti fare il figurante che presterà il volto al suo prossimo tranello. E la storia dei Mondiali – e del calcio e dello sport tout court – è disseminata di momenti in cui l’improvvisa esplosione del talento umano, libero e non imbrigliabile, veicolata dal rifiuto di prestarsi alla convenienza di un dover essere prescritto astrattamente, ha saputo conquistarsi il consenso e l’empatia di tutti, a cominciare da chi non ha mai avuto il coraggio né la dignità di ammetterlo, se non forse a sé stesso.
Maradona che fa gol all’Inghilterra con un pugno travestito da colpo di testa, l’Uruguay di Varela e Schiaffino che davanti ai duecentomila del Maracanà ribalta il vantaggio degli strafavoriti padroni di casa e diventa per la seconda volta campione del mondo, Zidane che abbandona i suoi compagni a sé stessi nel momento in cui più avrebbero avuto bisogno di lui perché, mentre il mondo aspettava che mostrasse di essere il più forte di tutti, al mondo decise di mostrare l’unica cosa che meritavano le offese gratuite e “mafiosette” nonostante le quali un musulmano di origini algerine era diventato capitano della Nazionale francese.
«I cavalli da corsa, i galli da combattimento e gli atleti umani non hanno il diritto di rovinare la festa». Gli atleti che si prestano a farsi cartelloni pubblicitari di chi porta acqua al mulino dei propri padrini politici sono sempre benvenuti, come sempre vengono censurati quelli che provano a sfruttare la propria visibilità per veicolare messaggi di solidarietà sociale. E allora giù anche con il presidente della Federcalcio argentina Grondona, che proibisce ai calciatori un’iniziativa solidale verso i maestri e i professori del paese, che percepiscono salari di fame, come con la FIFA che multa Robbie Fowler colpevole di aver indossato un messaggio di solidarietà per gli scioperi dei lavoratori portuali.
Ma Galeano, che nel testo scelto ad apertura del libro dice di scrivere «per venire a patti con la sua incapacità di essere neutrale, con il suo rifiuto di diventare un oggetto indifferente alle passoni umane», porta un fiore anche al maratoneta Doroteo Guamuch, che diventò la gloria dello sport guatemalteca, tanto da vedersi intitolare il più grande stadio del Paese, ma col nome di Mateo Flores, che gli era stato imposto per dissimulare le sue origini maya.
«Il ventunesimo secolo sacralizza l’uniformità in nome dell’efficienza e sacrifica la libertà sugli altari del successo». Rileggendole ora, dopo oltre vent’anni, queste parole con cui Galeano nel 2002 commentava il Mondiale tra robot umanoidi che scienziati giapponesi facevano giocare parallelamente al Mondiale sino-coreano tra calciatori, suonano a dir poco profetiche, in un tempo in cui, in modo sempre più distonale, la postura sul campo sembra sempre più comicamente imitare il modello iperreale della piattaforma ludica digitale.
Per questo – e contro tutto questo – bisogna rallegrarsi della testimonianza di Eduardo Galeano e della cura che viene da chi offre nutrimento alla pianta delle sue parole. Parole intrise di garra charrúa, topos mentale uruguayano che torna a più riprese nel libro e di cui l’autore amava una lettura franca e aperta, piuttosto di quella, altrettanto in voga, molto più malandrina e intimidatoria. A Galeano, nel calcio, nella politica, nella vita, non piaceva la garra di chi rompe il gioco altrui, il sabotaggio attraverso cattiverie più o meno nascoste, piuttosto voleva commuoversi di fronte alla garra dell’atleta che, osannato da tutti, cerca di fare salva la dignità e il senso dell’onore quando i riflettori si spengono e, digrignando i denti, inizia a fare a pugni con il personaggio cucitogli addosso da interessi a lui estranei.
Quei due scudetti metallici dell’Uruguay purtroppo non sono sopravvissuti alla mia giovinezza, buttati via al seguito di chissà quale programma di mettere ordine dove non ce n’era, ma almeno è rimasto il loro ricordo e questo è un buon antidoto per aiutarmi – galeanamente – a non confondere la noia con la serietà.
Eduardo Galeano, Chiuso per calcio, Sur, Roma 2023.