Se è vero, come di fatto è accaduto, che il teatro del secondo Novecento ha modificato radicalmente la relazione tra finzione e reale, nei termini di osservazione e di rappresentazione, resta ugualmente assodato, come assunto, che il teatro stesso ha continuato e continua a distendere le sue trasformazioni lungo un confronto mai interrotto col reale stesso. Da queste considerazioni preliminari deve necessariamente esordire qualsiasi sguardo sulle estetiche espresse dal teatro vivente, cioè espressione del «propriamente contemporaneo» distinto dal «contemporaneo che è già, per così dire, deposto» (Nancy). Il reale fatto oggetto dell’interpretazione artistica, nella quale decade qualsiasi determinazione legata alla mimesis, ha nutrito e popolato l’ispirazione e l’osservazione di artisti tesi a riconsiderare la relazione arte-mondo, sia dal punto di vista speculativo che da quello estetico. Il nesso teatro-mondo ha visto perdere con sempre maggiore convinzione la velleità di fare dello spazio scenico il luogo del riconoscimento condiviso e naturalistico di una condizione sociale e di un ambito culturale. Nei termini dell’indistinzione, della perdita di connotati autoriflessivi, la performance contemporanea ha fatto dello spazio scenico un architettonico luogo delle apparizioni comunque suggestionate dal reale.
È questo il caso del concepimento registico e scenico degli spettacoli di Romeo Castellucci e della Socìetas Raffaello Sanzio (oggi Socìetas). Ciò che nella sua forma teatrale è messo a problema, come allargamento dello sguardo sul reale, è in modo primario la relazione multicodica e polisemica con lo spettatore. Superando le definizioni (asfittiche) che hanno delimitato ad un unico aspetto gli spettacoli di Romeo Castellucci, sin dagli anni della Socìetas Raffaello Sanzio – anni ottanta e novanta del Novecento – per giungere alle sue regie degli ultimi dieci anni, osserviamo come questi abbiano sempre organizzato architettonicamente mondi-teatro (Valentini), i cui elementi fondono il visuale, l’acustico, la musica e il suono, le relazioni del corpo con il macchinico, l’artificiale, l’umano e il post-umano, l’animalità, il tragico, l’indicibile. Una tensione che sviluppa sullo spettatore una «dimensione ipnotica legata al carattere enigmatico delle immagini e al ritmo dello spettacolo» (Thulard, L’atmosfera ipnotica di Romeo Castellucci, in Romeo Castellucci: estetica). Il sogno, cui può essere accostata tale dimensione dello sguardo, è sfigurato da immagini inquietanti, anche per la loro indecifrabilità, posando il loro apparire sul sostrato sensibile di ciascuno, evocando il «sublime traumatico» (Sacchi) da cui ognuno è invaso; uno shock da cui lo spettatore non è mai salvo.
L’interesse e il credito, maggiormente riscosso a livello internazionale che italiano, nonostante premi e riconoscimenti conferiti all’artista di Cesena, si è concretizzato nell’avvicendarsi di studi sistematici sul suo teatro. Importante momento di riflessione ha rappresentato il progetto culturale E la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale che il Comune di Bologna ha voluto dedicarvi, in occasione del conferimento a Castellucci della Laurea ad honorem in Discipline dello spettacolo, presso l’Ateneo bolognese, nel 2014. Il progetto, curato da Piersandra Di Matteo, ha visto la realizzazione di spettacoli distribuiti lungo il perimetro cittadino, ospitati in luoghi non-teatrali, con a sostegno l’importante convegno La quinta parete. Nel teatro di Romeo Castellucci (Bologna, 5 aprile 2014) da cui è scaturito il volume Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci (Cronopio, 2015). Perimetrata, attraversata e interrogata, l’arte teatrale di Castellucci rivela il suo paradigma di complessa lettura e delimitazione argomentativa. I codici, i sensi, le suggestioni visuali, sonore, emotive trasportano lo spettatore e lo studioso in una materia impermeabile, complessa, oscura, richiedendo spesso competenze sui differenti linguaggi del teatro: la performance, il teatro visuale e musicale, lo spazio sonoro; ma anche robusti riferimenti all’estetica e alla filosofia.
L’organismo drammatico di Castellucci, compreso nel volume a cura di Salvatore Tedesco (Romeo Castellucci: estetica. Esperienza teatrale, tragedia, dramma musicale, Meltemi, 2018) ha la sua chiave di volta nel ciclo della Tragedia Endogonidia che fissa il «il luogo geometrico dal quale in fondo l’invenzione di Castellucci non si allontana mai», ponendo in essere il «punto geometrico d’indecidibilità fra parola e silenzio», sul quale il suo teatro si fonda. Il ciclo drammatico porta a compimento, esaltandola, la dimensione organica delle opere di Castellucci; organica nel senso biologico, nella sua consistente relazione con la mutazione di corpi e sostanze sulla scena, nel decidere di fare abitare una scena architettonica da fluidi e composti organici, appunto, suoni acusmatici fusi a oggetti e corpi, formule chimiche. Nella Tragedia Endogonidia la voce è sia la fonte organica di ciascun episodio che il suo elemento residuale. Scrive Enrico Pitozzi (Presenze acustiche. Romeo Castellucci e il teatro del suono, in Tedesco 2018): «Per “vedere” bisogna saper ascoltare. In questa logica contemplativa è il suono che si fa carico di dar forma a una “visione” capace di mutare in occhi le orecchie di coloro che ascoltano».
La relazione suono-immagine sovrintende la dimensione performativa e spettatoriale del teatro di Castellucci. Quest’ultima non è mai esente dallo scontro con «qualcosa che si vede per la prima volta. Ciò che è familiare, tranquillo, consolatorio, si rovescia in ciò che non lo è. Il riconoscimento apre al “terribile spaventoso”» (Pitozzi). Non che manchi in questo l’apparire del reale, esso permane, e giunge allo sguardo per gradi, in modo inconsapevole per lo spettatore, per passaggi che lo svelano, per sfumature: «Un invisibile nelle maglie del visibile».
Si delinea così – sul piano drammaturgico – la strategia elaborata da Castellucci e Gibbons mediante il suono. Attraverso la sua funzione contrappuntistica, il suono elettroacustico è incaricato – a livello latente e agendo in modo subliminale – di rovesciare il senso dell’immagine visiva: con i nostri occhi vediamo qualcosa che, tuttavia, non coincide perfettamente con ciò che percepiamo con il resto del corpo. Lo spettatore è così esposto sul bordo di un abisso, al limite di un cambiamento che il suo ascolto ha predisposto. Si ha la sensazione che ciò che si sente non proviene esattamente da ciò che si vede, non c’è più corrispondenza tra ciò che è sulla scena e la sensazione che quell’immagine trasmette. Il suono introduce la percezione sottile di un’altra realtà imminente, che sta per apparire facendosi largo nelle maglie dell’immagine. L’altrove è già qui perché la musica l’ha convocato (Pitozzi).
La dimensione contrappuntistica del suono lascia poi lo spazio alla musica nelle regie operistiche del regista cesenate. Particolarmente significativo, in tale contesto, il lavoro sul Wagner: Parsifal (La Monnaie, Bruxelles, 2011 e Bologna 2014), Tannhäuser (Bayerische Staatsoper, Monaco di Baviera, 2017). Ciò che, significativamente, segna le due regie è la convivenza nella stessa concezione registica tra «il recupero dell’esperienza wagneriana» e le istanze del «canone performativo contemporaneo» (Ceraolo in Tedesco 2018). Si tratta, nei due esempi citati di «una teatralità in cui la scena rappresenta fondamentalmente il divenire corpo dell’idea del dramma […] una supremazia del teatro sulle altre arti inteso come luogo di materializzazione dell’idea, a rappresentare il vero momento di scarto tra Wagner e le estetiche teatrali ottocentesche» (Ceraolo). Il lavoro di Castellucci su Wagner è contestualizzato in un panorama che intreccia l’interesse da parte di registi come Jan Fabre (Tannhäuser, Bruxelles 2004) e Robert Lepage (Ring, New York 2013), con quello di filosofi come Alain Badiou (Cinque lezioni sul “caso” Wagner, 2010) e Slavoj Žižek (The Wagnerian Sublime, 2016). Lungo questo asse interpretativo, Castellucci è riuscito nell’intento di conciliare due aspetti fondamentali dell’arte wagneriana, da una parte la capacità di astrazione e immaginazione sviluppate lungo gli esiti di piani di visione spaziale; dall’altra l’abilità ugualmente affermata di non abbandonare mai un piano speculativo in uno spazio realistico, nel quale il testo wagneriano non ne risulti esaltato.
Continua, anche in questa forma, il confronto che Castellucci ha sempre mantenuto col tragico. «Il valore del tragico umano meta-temporale è da sempre connaturato con le opere di Romeo Castellucci, dai primi lavori della Socìetas Raffaello Sanzio fino alle ultime produzioni teatrali e operistiche dell’artista cesenate» (Canzonieri, Aenigmata, in Tedesco 2018). La dimensione tragica non si estrinseca soltanto nella riconsiderazione di un genere teatrale all’interno di un tessuto connettivo le cui forme intrecciate si dipanano lungo percorsi molteplici. Essa giunge a toccarne, tuttavia, una dimensione che nelle varie forme gli è sempre stata propria, quella del dolore, della sua immanenza nel reale, nell’esistere umano, in cui si ri-sente l’eco della colpa, del fallimento umano, dell’enigma, risposte che per secoli il teatro ha riverberato e che ancora giungono urgenti al nostro ascolto, verso cui restiamo irretiti, silenti, corrotti dalla paura: «Ognuno è chiamato in causa alla cerimonia con il proprio dolore» (Canzonieri).
La relazione con il reale, indagato anche nei suoi aspetti più sconcertanti e dialettici è stata, come detto, costantemente fatta oggetto dagli spettacoli di Castellucci. Emblematico in questo senso Sul concetto di volto nel Figlio di Dio (2012), spettacolo tra i più discussi di Castellucci, che incrocia due temi importanti connessi col reale: la malattia e la fede. «Con Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, abbiamo il disgusto per il disgusto. Un rischio e un pericolo effettivamente corsi. Lo spettatore è lasciato solo. Nessuna risata salvifica; nessuna connessione con il terribile» (Mazzocut-Mis, Prima del “Concetto di volto”, in Tedesco 2018). Il disgusto per la (e della) malattia e il suo manifestarsi implacabile, doloroso, schifoso, al cospetto di un Dio che “guarda senza vedere”, nella sua immobile bellezza, con la quale “supera” ciò che sulla scena lo chiama in causa, senza muovere il suo intervento. Lo spettatore guarda, è messo alla prova dall’odore cattivo che inonda la sala, è al cospetto del dolore e guarda l’essere guardato dal Dio immobile (il volto ieratico e patetico allo stesso tempo del Cristo Salvator Mundi di Antonello da Messina che campeggia sullo sfondo, in grandi dimensioni).
La domanda posta al divino è umana, è quella che anche Cristo proferisce sulla croce, una richiesta di intervento di interruzione della sofferenza. Ma essa non giunge, il nume resta immobile nella sua “inutile” bellezza e quando quest’ultima è sporcata, deflagrata, cancellata lascia il posto alla contraddittoria espressione: “You are my shepherd” (“Tu sei il mio pastore”, Salmo 23) che l’accadimento scenico trasforma in “You are not my shepherd” a segnare la negazione reciproca del riconoscimento del divino e dell’umano. La scena di un bianco abbacinante, «un bianco senza candore e senza innocenza, ma inquieto, febbrile. Assorbe silhouette di oggetti e individui: minimi arredi, un padre umiliato dalla vecchiaia, un figlio che questa umiliazione tenta di lenire. Sono oggetti e figure anch’essi bianchi che il bianco moltiplicano e, mentre lo infittiscono, lo rendono mosso, percorso da fremiti e scosse che il bianco per un attimo raggela ed espone non come un privato dolore, ma il dolore» (De Luca, La scena del nulla comune, in Tedesco 2018). Per qualche tratto, con la presenza del corpo malato e coperto di escrementi dell’anziano padre sembrano essere riconvocate alcune scelte performative degli spettacoli degli anni novanta (Giulio Cesare, Genesi, Orestea), sebbene i codici visivi siano poi rivolti nuovamente al dispositivo dell’immagine.
Permane la tensione verso il reale anche nel momento in cui sulla scena irrompe l’animale-bestia, come frequentemente accade negli spettacoli di Castellucci:
La bestia è diversa dall’animale. La bestia è quell’animale che non ha alcun rapporto con il linguaggio. Che non è mai stata contaminata dal linguaggio. La bestia è il reale. Quando una bestia sale sul palco, in realtà non sta entrando in scena come un attore. La bestia non recita, non rappresenta, non vuole essere la pura tautologia: la bestia è la bestia. Ma solo dal punto di vista dello spettatore, cioè dell’animal fictivus. La bestia, nel teatro di Romeo Castellucci, non è una metafora di altro, dell’istinto, dell’animalità, della natura selvaggia. Se fosse così la bestia sarebbe ancora una bestia fittizia, sarebbe un simbolo (Cimatti, La bestia teatrale, in Tedesco 2018).
Il regista ne accoglie la feconda possibilità che la sua presenza non irreggimentabile in uno schema registico ne modifichi l’esito o l’intenzione. La sua imprevedibilità è un’occasione allo stesso modo dell’irrappresentabile. In entrambi i casi non è possibile esercitare un controllo totale degli esiti, una volontà preordinata. Essi sfuggono al controllo e, appunto, si creano occasioni (espressione cara a Castellucci). Così, il fascino e allo stesso tempo lo sconcerto suscitato da immagini e figure dure, spiacevoli spaventose innalzate ad atto estetico sommo, ricadono nella loro appartenenza: la vita e la abitano, abitando lo spettatore. In maniera antifrastica, come nella tragedia, esse giungono ad esprimere il loro opposto ed evocare la fragilità umana, il bisogno d’amore. L’orrore muta in bellezza e giunge a parlarci ancora più profondamente, aprendo il nostro sguardo, un altro, al reale.
Riferimenti bibliografici
C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, Epopea della polvere. Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi, Ubulibri, Milano 2001.
C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, J. Kellher, N. Ridout, The theatre of Socìetas Raffaello Sanzio, Rutledge, London 2007.
P. Di Matteo, a cura di, Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, Cronopio, Napoli 2015.
S. Tedesco, a cura di, Romeo Castellucci: estetica. Esperienza teatrale, tragedia, dramma musicale, Meltemi, Milano 2018.
V. Valentini, Mondi Corpi Materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007.