Mentre il mondo cerca di tornare alla tanto agognata “normalità” pre-pandemica e di cancellare in qualche modo questi lunghissimi mesi di “emergenza” da Covid-19, come se non fossero che un’infelice eccezione da superare e dimenticare il più presto possibile, Felice Cimatti cerca invece di pensare seriamente il significato filosofico di quello che abbiamo vissuto (e stiamo ancora vivendo) su scala globale e di analizzarne le conseguenze più profonde. Come in tanti hanno detto e scritto in questi mesi, anche per Cimatti la pandemia è un campanello d’allarme, un potente pettine a cui i nodi del presente si sono finalmente impigliati, una salutare scossa che ci ha svegliato dal sonno compiaciuto di una situazione ormai insostenibile. Però per Cimatti non si tratta tanto (o non solo) dei disastri economici, politici e sociali di quarant’anni di neoliberismo, della catastrofe ecologica che incombe sul pianeta o delle conseguenze devastanti della progressiva e inarrestabile antropizzazione della natura. Ciò che il virus ha finalmente dissolto sono, ben più a monte, le categorie stesse con cui finora abbiamo pensato il mondo e la nostra presenza in esso.

In realtà, sottolinea Cimatti, tutte queste cose le sapevamo già; il virus non ha fatto che rendere il processo di dissoluzione delle nostre certezze affatto evidente e innegabile, a dispetto di tutta la roboante e assordante retorica del “ritorno alla normalità”. E infatti, se i tre capitoli che compongono questo volume sono la rielaborazione di tre scritti recenti, le tesi che Cimatti qui propone coagulano e puntualizzano un pensiero che il filosofo porta avanti da anni. «Pensare con il virus» – cioè pensare non il virus come tradizionale oggetto di analisi ma come modello di un pensiero a venire – gli permette di fare il punto sulla crisi delle categorie portanti della nostra umanità, e questa critica si fissa qui su tre concetti fondamentali: l’Animale, l’Antropocene, e l’Umano stesso, a cui sono dedicati rispettivamente i tre capitoli. Che però non sono affatto stagni, anzi, presentano, ripropongono e ribadiscono in vari modi una sola tesi centrale: che quello che il virus ha veramente messo in crisi è il dualismo attraverso cui l’Umano si è da sempre definito in contrapposizione al resto del mondo.

Il concetto di “animale” in fondo non è che questa contrapposizione. Per quanto semanticamente indichi qualsiasi vivente “animato” e zoologicamente includa l’essere umano, da sempre questo termine viene usato per indicare il vivente non umano in un netto dualismo che contrappone umano e animale come spirito e corpo, ragione e istinto, sapienza e senzienza, ecc., e raggruppa l’immensa moltitudine di tutti i viventi non umani in un unico grande insieme compatto e omogeneo: l’Animale. Per questo Derrida aveva coniato il termine animot, un sostantivo singolare collettivo che esemplifica la fallacia di questa contrapposizione tra “noi” e tutto il resto e che non è che una parola (mot); e per questo Cimatti già in Filosofia dell’animalità (2013) aveva scritto che l’Animale non esiste: non esiste questo gruppo immenso e omogeneo che include tanto le amebe e le zanzare che gli elefanti e le balene, e non esiste questa contrapposizione che eleva l’umano al di fuori e al di sopra di tutti gli altri viventi. Scardinando non solo la presuntuosa illusione di onnipotenza umana (nella “gabbia” del lockdown adesso ci siamo noi, i viventi che hanno inventato lo zoo), ma anche le tradizionali tassonomie (non è né vivente né non vivente, né soggetto né oggetto, né animale né cosa, e non è certamente un “individuo”), il virus scardina in primis la categoria di Animale, che ormai non ha più senso. Il vivente, che sia umano o virus, è ormai un post-animale, non può più essere costruito su questa contrapposizione binaria.

L’impianto teorico di queste riflessioni è fortemente deleuziano, supportato però anche da un’impressionante bibliografia scientifica sui virus, le epidemie e il loro impatto non solo sulla vita ma anche sull’evoluzione umana. Il virus non è che il contagio che ne replica e propaga il materiale genetico, non è né soggetto né oggetto ma è unicamente questo contagio ed è quindi «puramente transitivo» (Cimatti 2021, p. 15). In questo senso il virus è la figura esemplare del divenire che Deleuze (con Guattari) aveva messo al centro del suo pensiero, e vendica l’affermazione di Foucault che, cinquant’anni fa, aveva sostenuto che “il secolo sarebbe stato deleuziano”. Questo divenire, questo contagio, quest’infezione sono la vita stessa, sono il normale processo attraverso cui la vita si espande e si trasforma, a spese di altra vita.

Lungi dall’essere l’eccezione, il virus è quindi la regola, è la normalità stessa, è l’incessante e inarrestabile movimento di contatti, incontri e infezioni tra un corpo e un altro, tra una specie e un’altra, tra un ecosistema e un altro. L’ontologia stessa è perciò «virale» (ivi, p. 24), il mondo non è fatto di entità isolate che successivamente entrano in relazione tra loro, ma non è che incontro, permeabilità, cambiamento, innovazione – anche all’interno di noi stessi: una notevole quantità del genoma umano è infatti esso stesso di origine virale. Il virus è la vita stessa in quanto “immanenza assoluta”, e lungi da fargli la “guerra” (come si sbraita da più di un anno a tutti i microfoni), ciò a cui questa crisi ci chiama è a un pensiero all’altezza di questa ontologia.

Quest’appello spazza via un altro termine centrale del dibattito contemporaneo: Antropocene. Ben più “giovane” di animale (non ha che una ventina d’anni), il neologismo coniato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen si basa però sullo stesso dualismo che vede l’umano da una parte e il resto del mondo dall’altra. Antropocene designa quell’epoca geologica nella quale l’attività umana è arrivata a determinare processi geologici e climatici. Nel dibattito ecologico contemporaneo l’uso di questo termine parte da un’intenzione costruttiva, in quanto da un lato vuole mostrare l’impatto distruttivo degli umani sul pianeta e dall’altro intende quindi chiamare a un’azione etica per “salvarlo” e riportarlo al suo stato “naturale”. E tuttavia il concetto riproduce (forse inavvertitamente ma proprio per questo più pericolosamente) il tradizionale dualismo radicale che vede l’umano come solo e unico agente (sia esso distruttivo o salvifico) di fronte a una natura passiva e inerte.

Il virus, pur non essendo forse nemmeno vivo, agisce con un impatto immenso su scala planetaria, ci costringe a ripensare questo schema e a scartare il termine “Antropocene”, che, ripete varie volte Cimatti, non solo è finito con questa pandemia, ma non è probabilmente mai nemmeno iniziato. L’umano non è e non è mai stato il solo agente nel mondo e l’antropocentrica metafisica dualistica dell’Antropocene dev’essere sostituita con l’ontologia virale di una moltitudine di agenti (qui il riferimento è alla Actor-Network Theory di Bruno Latour, ma anche al multinaturalismo di Viveiros de Castro) umani, non umani e perfino inanimati, sempre intrecciati insieme in una continua “infezione” reciproca. Questo non significa ovviamente negare la crisi ambientale e “assolvere” l’umanità; significa soprattutto che la sola sopravvivenza possibile è «collaborativa» (ivi, p. 68) e non certo l’esito di un nuovo prometeico e unilaterale sforzo umano.

L’ontologia virale e il multinaturalismo costringono a un radicale ripensamento non solo del ruolo dell’umano sulla terra, ma anche della sua stessa essenza. L’ultimo capitolo propone quindi un’analisi di un altro concetto centrale del dibattito contemporaneo (solo di una trentina d’anni più vecchio di Antropocene): il postumano. Questo termine però è alquanto generico e copre una miriade di teorie diverse, divergenti e spesso anche contrastanti, ed è proprio contro le maggiori accezioni del termine che Cimatti porta la sua proposta. Se con esso si vuole indicare il superamento dei limiti fisici e mentali dell’umano, come vuole una potente corrente di questo pensiero, allora non solo questo postumano è essenzialmente un iper-umano, un potenziamento dell’umano, ma l’umano è sempre stato allora post-umano, perché si è sempre costitutivamente sporto al di fuori di sé e di un’identità fissa e immutabile. (Ma allo stesso modo il virus sarebbe costitutivamente un post-virus, in quanto non smette mai di evolvere e cambiare, come dimostrano le migliaia di “varianti” che vengono individuate ogni giorno.) Il postumano che il virus ci costringe a pensare è invece il superamento del dualismo che contrappone un soggetto (umano; solo l’umano è soggetto) e un oggetto, e cioè il superamento del concetto stesso di soggetto. Andare oltre l’umano e oltre l’umanesimo significa andare oltre il soggetto, ma questo “oltre” indica una condizione affine a quella “animale” (inteso come post-animale), quella di un vivente non soggettivato.

Il postumano (o il postanimale; i due termini alla fine dovrebbero avere lo stesso referente) come condizione affine all’animalità non è quindi un “ritorno” a una rousseauiana condizione perduta ma è invece una condizione propriamente post-, ancora tutta da scoprire, da inventare e da sperimentare (questa era già la tesi centrale di Filosofia dell’animalità). Quello che il virus ci ha rivelato è che in questa condizione in fondo già ci siamo: le categorie che costruivano e sostenevano la nostra umanità si sono sgretolate, e malgrado tutti gli immani sforzi che vengono fatti da ogni lato per continuare a sostenere l’illusione, è innegabile che siamo già nel tempo del post-animale, del post-Antropocene, del postumano.

Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013.

Felice Cimatti, Il postanimale. La natura dopo l’Antropocene, DeriveApprodi, Roma 2021.

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