Il secondo volume dell’opera Prove aperte di Marco Palladini, scrittore di romanzi, poesie, testi per il teatro e critica teatrale e letteraria, porta come sottotitolo “Lampi di memoria random sulla scena italiana”. Si tratta di testi critici su spettacoli visti a Roma, convegni, libri che vanno a disegnare una mappa viva della scena italiana in un arco di tempo ampio, dagli anni settanta fino al nuovo millennio. Al decennio settanta lo scrittore ha dedicato un romanzo e uno spettacolo teatrale, Rosso Fuoco, a un periodo “che il sistema ha voluto archiviare e ‘maledire’ come ‘anni di piombo’, mentre furono essenzialmente ‘anni di fuoco’, ricchi di contraddizioni, tensioni, lacerazioni, illusioni, passioni e tragici, anche criminali errori. Anni folli, forse, ma anche traboccanti di energie vitali, di elettriche pulsioni, di tante spinte creative, in cui accanto al terrorismo e alla lotta armata è impossibile non registrare l’ultimo scatto di una soggettività radicale, strenuamente oppositiva, non ancora integrata e appiattita nella deriva dell’attuale ‘postmodernità’” (Prove aperte. Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato, Vol. II, Fermenti, 2017, p. 230).
L’attitudine di Marco Palladini non è ideologica, perché prende in esame con lo stesso interesse, adesione, generosità di ascolto sia un’attrice particolare come Rossella Or, pressoché dimenticata, sia un nome consacrato come quello di Giorgio Strehler, ed è distante dalla mitica partigianeria di critici come Giuseppe Bartolucci. Infatti prende in considerazione teatri anche molto diversi fra di loro: Ugo Betti e Salvo Randone, ma anche Daniele Timpano e Antonio Rezza. Pur privilegiando il Nuovo Teatro, non ignora il teatro del circuito degli Stabili, né quello privato, restituendo nei suoi testi la materialità della scena, non compiacendosi della stroncatura e non esitando a mostrare incertezze e dubbi. E il rapporto sensuale con la scena si esprime con un linguaggio ricercato, con il piacere della scrittura inventiva di neologismi (“maschi galletti regolarmente scorbacchiati”, riferito ai personaggi di Peppe Barra, p. 13) che fa tornare alla mente le recensioni teatrali che Angela Maria Ripellino pubblicava su L’Espresso.
Infatti la genealogia delle recensioni di questo autore è letteraria, risale a scrittori come Alberto Arbasino, Ennio Flaiano, Elio Pagliarani, con una capacità di restituire il sapore e l’essenza di uno spettacolo attraverso i dettagli. La sua attitudine non è teatrologica, la sua vasta cultura letteraria lo porta a parlare di Musil e di Sade, di Barthes e di Genette, a stigmatizzare un teatro che evita di confrontarsi con la tradizione e con questioni cruciali come quelle della simulazione, del dialogo, dei personaggi, in accordo con la critica che Maurizio Grande, ne La riscossa di Lucifero (1986), rivolgeva al pensiero postmoderno e ai suoi adepti teatrali.
Nel secondo volume di Prove aperte, Marco Palladini discute di singoli spettacoli e di problematiche rilevanti: in particolare, affronta il tema della drammaturgia in vari articoli (“Maurizio Grande”, p. 155, “Scrittura scenica e Drammaturgia”, p. 161, “Sulla drammaturgia”, p. 176, “Teatro minoritario?”, p. 185) in cui si domanda se non sia improprio o inutile l’appello a una nuova drammaturgia che, in Italia, ritorna a tratti a invocare il ruolo dello scrittore di teatro. Palladini si chiede se esista una tradizione e in quali autori identificarla. Una delle sue tesi – molto interessante da discutere – consiste nell’attribuire al dispositivo della scrittura scenica, passato al convegno di Ivrea come modo costruttivo specifico dei gruppi del Nuovo Teatro, l’ostacolo che “abbia inibito la nascita di nuovi autori presso almeno un paio di generazioni teatrali” (p. 161) e da qui, a metà degli anni ottanta, “l’attesa resurrezione del testo drammaturgico”, del recupero di una istanza letteraria, che andasse a risolvere da un lato “il logoramento di linguaggio della nuova scena” e dall’altro “l’impasse del teatro di regia” (ibidem).
Palladini è consapevole che la tradizione del teatro, in Italia, affonda nel ruolo del grande attore, combattuto e soppiantato nel dopoguerra da quello del regista: questa è stata la battaglia portata avanti da Silvio D’amico, fondatore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. L’attore è centrale per ridefinire le prospettive del teatro italiano, si chiede Marco Palladini, commentando i volumi di Antonio Attisani (Teatro come differenza), Roberto De Monticelli (L’attore) e Maurizio Giammusso (La fabbrica degli attori). E allora come spiegare, si chiede il critico, il fatto che, nonostante Silvio D’Amico fosse a favore della regia come panacea per adeguare il teatro italiano, dominato ancora dai grandi attori, all’altezza dei teatri europei, l’Accademia abbia formato attori piuttosto che registi?
L’idea di drammaturgia di Marco Palladini non è quella del letterato che fuori dal palcoscenico scrive i suoi testi e poi aspetta che un regista li metta in scena: questo è il procedimento del teatro di regia, un teatro che sostanzialmente è estraneo alla tradizione del teatro italiano. E allora: la tradizione del teatro in Italia, non è quella della regia critica che ha “aggiornato e ammodernato il teatro italiano, rendendolo europeo” così come si è affermata nel dopoguerra con Strehler, Costa e Squarzina, piuttosto quella dell’attore-scrittore-capocomico (da Ruzzante a Goldoni, da Scarpetta a Eduardo, fino a Dario Fo), ma anche D’Annunzio con Eleonora Duse e Pirandello con Marta Abba e il Teatro d’Arte, ovvero di una letteratura che inscrive i gesti, il timbro, il ritmo dell’attore nel personaggio impresso sulla pagina del testo teatrale. A nostro avviso si tratta di una tradizione interrotta che vede nella linea del teatro napoletano di Scarpetta, Viviani, De Filippo, un modello unico di trasmissione e di innesti europei su genealogie locali che continua nel secondo Novecento con autori come Enzo Moscato e Annibale Ruccello.
L’interlocuzione con Marco Palladini, fa risaltare questa tradizione interrotta ma persistente dell’attore-autore che potrebbe essere assunta come identitaria del teatro italiano, includendo con pertinenza Carmelo Bene e Leo de Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Carlo Cecchi e tanti altri, perché sono attori-autori di una scrittura di scena in cui ricompongono e rimediano i ruoli del grande attore-capocomico della tradizione italiana e quello moderno del dramaturg che appronta i testi letterari come materiali di scena, non come intoccabili testi d’autore.
Riferimenti bibliografici
A. Attisani, Teatro come differenza, Essegi, Ravenna 1988.
M. Giammusso, La fabbrica degli attori. L’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica: storia di cinquant’anni, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Direzione Generale delle Informazioni dell’Editoria e della Proprietà Letteraria Artistica e Scientifica, Roma 1988.
M. Grande, La riscossa di Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Italia (1976-1984), Bulzoni, Roma 1985.
*L’immagine in evidenza è un dettaglio della copertina del libro.