Se manca il padre, non ci sono figli.
Euripide, Oreste

In attesa del Pinocchio di Garrone, dopo film come Indivisibili (De Angelis, 2016), Il cratere (Luzi-Bellino, 2017) e La tenerezza (Amelio, 2017) – solo per citare i più recenti –, il cinema italiano continua a porre al centro delle proprie storie il complesso rapporto padre-figli, questa volta nel racconto di Nicola Guaglianone che accompagna il delicato esordio alla regia di Alessandro Capitani nel suo In viaggio con Adele presentato alla Festa del Cinema di Roma e adesso in sala.

Dopo il progetto incompiuto del “Pinocchio alla rovescia” di Michelangelo Frammartino, che anche il regista di Dogman si interessi alla favola italiana dell’infanzia, metafora dell’incompiutezza dell’uomo italiano, ci sembra suggestione da tessere insieme alle riflessioni su questo primo lungometraggio di Capitani. Nella favola di Collodi, Pinocchio è il burattino che non riesce a diventare bambino, cioè il bambino che non riesce a diventare adulto, quindi un figlio incompiuto in parte perché privo di madre (la fata diventa madre adottiva solo più in là nel romanzo rimanendo comunque di poca importanza), in parte perché manca di padre: Geppetto lo vuole come figlio, lo sceglie (come ogni padre deve scegliere il proprio figlio), ma riesce soltanto a fabbricarlo con il legno, senza poterne fare un bambino vero. Pinocchio è cioè un figlio “incompleto” come figli la cui incompiutezza può inscriversi nel rapporto irrisolto con la figura paterna sono anche quelli di A ciambra (Carpignano, 2017), L’intrusa (Di Costanzo, 2017), Cuori puri (De Paolis, 2017) e molti altri film italiani di questi anni.

Questo per dire che se anche oggi, come la manualistica psico-sociologica sulla figura paterna dimostra, l’autorità del padre si è democratizzata e la sua forza si è disciolta, l’inconscio collettivo di una società patriarcale come quella occidentale non è riuscito ad eliminare in poche generazioni ciò che lo ha dominato per millenni: il padre continua  ad essere cercato e, in luogo di una mancanza, il cinema fa parlare, mettendola in immagine, una nostalgia inconscia e collettiva, che è la nostalgia dei padri (una nostalgia che è sempre anche, come nella radice del nome nostos, “dolore del ritorno”). È nel solco di questa mancanza, e attraversato da questa nostalgia, che il cinema italiano contemporaneo ci restituisce immagini icastiche di questo momento complesso e spesso critico della vita del figlio: il processo di differenziazione e affermazione del proprio desiderio.

Nel processo di umanizzazione della vita, infatti, mentre la funzione materna è quella di trasmettere il sentimento della vita (cioè il senso della vita unito al suo desiderio), la funzione paterna è quella di far esistere il limite, l’impossibile (il fatto che non tutto sia possibile), ovvero il senso della Legge nella possibilità del Desiderio. Nella realizzazione del desiderio del figlio in relazione alla Legge, è quindi l’eredità paterna a pesare maggiormente nel processo di differenziazione del figlio, ovvero nel suo passaggio dall’infanzia alla vita adulta. Se dunque funzione del padre è quella di umanizzare il reale legando la Legge al Desiderio, si comprende come l’arrivo del padre nella vita di Adele (Sara Serraiocco) – in un certo modo la sua nascita – sia un evento, per la protagonista del film, di pari intensità emotiva alla morte della madre a cui si assiste nella prima scena. Perché la morte, come la nascita (anche simbolica) di un genitore, è un evento che accade e turba l’ordine del mondo. Nel film di Capitani, la morte della madre, la fine di un legame, diventa occasione di nascita del padre, cioè inizio di un nuovo rapporto: Paolo (Alessandro Haber) che, recatosi al capezzale della fidanzata di trent’anni prima, deve ora comunicare “la verità” alla ragazza “con la testa tra le nuvole” che scopre essere sua figlia.

Paolo è ipocondriaco e vegetariano, attore di teatro attempato e “sfigato” con il sogno sbiadito di sfondare nel mondo del cinema; Adele, trincerata nella sua tuta con le orecchie da coniglio, è una “neurodiversa” nel suo rapporto slacciato col mondo, col piano di realtà delle cose, in primis dunque con ciò che a quelle cose del mondo ci tiene legati: il linguaggio. Per indicare ciò che la circonda senza appartenerle, Adele colora il mondo di post-it: scrivere le cose la aiuta a vedere che mamma è “morta” e che Paolo è “papà”.

Paolo accade nella vita di Adele, in quel momento della vita dei figli in cui la figura paterna è determinante, non tanto cioè nella fase primaria, quanto in tutti i successivi passaggi, dall’infanzia all’adolescenza e da questa alla vita adulta. E che Adele non sia più una bambina ma si sia già sfacciatamente affacciata alle avventure sessuali dell’età adulta, è cosa esplicitata sin dalle prime battute del film, con quella sensibilità mai volgare ma nemmeno stucchevole in grado di toccare le cose, propria delle sceneggiature di Guaglianone e della necessaria ironia con cui delinea la problematicità dei suoi personaggi femminili: qui è Adele senza padre come in Lo chiamavano Jeeg Robot (Mainetti, 2015) era Alessia con il padre-usurpatore e in Indivisibili le gemelle Fontana con il padre-padrone.

In un on the road esistenziale dalla Puglia fino a Frosinone, in cui il rischio di una chiusura melodrammatica con cui la trama avrebbe potuto avvitarsi asfitticamente su se stessa, viene evitato alleggerendo il racconto con toni lievi da commedia, ciò che accade è che due sconosciuti diventano padre e figlia. Aspettando insieme l’arrivo di un treno, assaporando il tempo scandito dalle sigarette, assecondando gli istinti corporali (la pipì nel campo) e le gioie, carnali, della vita (la bistecca mangiata con le mani e il bicchiere d’acqua buttato per gustare il vino).

Anche gli spazi del film testimoniano di questa apertura (non solo la strada, ma tutti i luoghi all’aperto, dalla terrazza del ristorante al campo con le pale eoliche) resa possibile dalla presenza del personaggio femminile: nella relazione con la figura paterna, infatti, le figlie femmine godono di un maggiore grado di libertà (di sguardo, di azione) perché svincolate dal “passaggio di testimone” che, tradizionalmente, grava maggiormente sui figli maschi, rendendo più complicata la realizzazione del figlio come erede del padre, e dunque più drammatico il racconto del loro rapporto. Diversamente, la creatività femminile, qui accentuata dalla condizione di “diversità”, permette invece alla figlia di riconquistare soggettivamente l’eredità (genetica, materiale, simbolica) del padre, non limitandosi a interpretare il passato come pura ripetizione di ciò che è già stato, ma conferendogli un senso nuovo, cioè realizzando il proprio desiderio.

Così, Paolo e Adele, due alterità – di genere, generazione e sangue (non è il sangue ad unirli: quello può essere lavato come il mestruo della figlia che sporca il sedile della macchina del padre) – si riscoprono insieme, nelle loro solitudini: Paolo, con la sua cinica agente e compagna occasionale di letto (Isabella Ferrari) che però “non è la sua donna”, è un uomo solo come sola al mondo è Adele con la mamma morta, il gatto immaginario e il fidanzato che se diventa reale è un cavaliere oscuro (e gay) di una casa famiglia, o manicomio “che è la stessa cosa”.

Nel suo percorso di crescita e differenziazione, Adele cerca invano il nome di ciò che le manca perché è la mancanza il motore del suo malessere, della sua diversità (ancora Capitani si confronta con il tema della diversità già affrontato nel precedente cortometraggio Bellissima). E quando Adele scopre il nome del padre, che non ha mai importanza quale sia e non è mai “alto, ricco, senza paure e col cazzo grosso” come ogni bambina segretamente lo vorrebbe, ma è sempre e soltanto “papà”, lì Paolo muore come Paolo e ri-nasce come padre. Perché se “ogni figlio è del padre il fiore” come pensava Hegel, ciò implica che il seme marcisca per iniziare la bellezza del fiore; è necessario cioè, in un doppio movimento, che il padre muoia (simbolicamente, rinunciando al provino che cambierebbe corso alla sua carriera strappando il posto al pluricitato Servillo) e che la figlia passi dalla sovraestimazione idealizzante del padre a una svalorizzazione in grado di umanizzarlo.

Solo se il padre riconosce che la sua paura di morire (i germi e le malattie), è “in realtà paura di vivere”, Adele può riconquistare la fiducia nel mondo (il terrore dell’acqua avvelenata) e la gabbia vuota può riempirsi, di un gatto reale o immaginario poco importa, perché non è mai l’oggetto a mancare ma sempre e soltanto il suo segno. L’amore è il segno della mancanza che Adele scopre, il nome del padre che scrive sul post-it, e che prepara al gesto del finale, l’happy ending che ne decreta lo scarto commedico rispetto ad altri film che affrontano lo stesso tema: la separazione (fisica) della figlia dal padre, necessaria ai personaggi di film come Il cratere (Sharon che scappa dalla prigione paterna) o Indivisibili (le gemelle siamesi che, per separarsi dal padre, devono separarsi da se stesse), diventa qui unione (fisica, e non incestuosa, ironicamente paventata per tutto il film) della figlia al padre: è l’inquadratura finale dell’abbraccio, sotto l’albero della vita, di Paolo e Adele.

Adele perdona il padre per averla abbandonata, il padre perdona Adele per averle “scombinato i piani”. Padre e figlia non si abbracciano perché si sono perdonati, non ci sono parole di scuse né post-it di promesse, solo lo stringersi in un abbraccio in grado di riaprire il tempo. È nel gesto la forza del sentimento, è abbracciandosi che padre e figlia si perdonano. Perché solo attraverso l’esperienza generativa del perdono è possibile dire ancora sì alla vita. È possibile abbandonare il passato, che appartiene ai morti, per accogliere il presente in cui si diventa padri e si diventa figlie se si stringe in un abbraccio tutto l’amore che c’è.

Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006.
M. Recalcati, Il segreto del figlio, Feltrinelli, Milano 2017.
L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

Share