Potrebbe dirsi di Renato Solmi quel che lui stesso attribuiva, introducendone la figura, a Walter Benjamin: “La sua originalità di pensatore fa piuttosto tutt’uno con la sua attività d’interprete e di critico” (p. 227). E, del resto, Solmi non è stato solo il formidabile traghettatore in Italia del pensiero del suo maestro Adorno (e, in particolare, dei Minima moralia), delle vertenze critiche di Lukács (alla cui lezione sarà informata l’intera sua vicenda intellettuale) o dei Saggi e frammenti di Angelus novus; non è stato solo l’alacre collaboratore della Einaudi, prima che da quella casa editrice fosse licenziato per aver difeso l’inchiesta sociale sull’emigrazione meridionale a Torino allestita dal giovane Goffredo Fofi, o l’animatore di riviste come «Discussioni» o «Quaderni piacentini»: l’imponente Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, pubblicata da Quodlibet, e contenente saggi, interventi e discorsi di taglio teorico e militante, consegna altresì il ritratto di un maestro della critica dialettica, di un intellettuale che, fedele alla demistificazione spietata di qualsivoglia essenzialismo, ha sottoposto i propri modi di pensare a una verifica costante e lucida, realizzando quella “necessaria metamorfosi della filosofia in critica” (p. 230) che Benjamin e i francofortesi gli avevano insegnato.
E, accanto alla grandezza di un profilo intellettuale di altri tempi, convive tuttavia l’umiltà del lavoro di trasmissione del sapere – quello dell’instancabile traduttore e quello del docente scolastico, cui Solmi si dedicò per tutta la vita. Non sarà pertanto un caso se gli scritti raccolti in questo volume, pur divisi in sfere d’interesse differenti – dagli studi al lavoro editoriale, dalla diffusione del pensiero di Adorno agli interventi sulla nuova sinistra americana, dai contributi sulla situazione scolastica al ricordo di amici e compagni di avventura – descrivano il senso di un’unità di intenti, che non è mai, si badi, professione di autonomia culturale, ma convergenza appunto dialettica di spunti che trovano in una dimensione comune e unitaria la loro ragione d’essere. Così pure questa profonda coerenza teorica si spiega con la capacità di diagnosticare le ragioni dell’epoca, di relativizzare storicamente le proprie condizioni di pensiero, secondo la lezione di uno storicismo integrale e mai dogmatico.
A conferma della capacità filosofica di Solmi di trasformare gli oggetti del pensiero in una critica del presente, valga lo straordinario saggio su Ernesto de Martino e il problema delle categorie, in cui la rilettura de Il mondo magico è l’occasione per riflettere sui limiti del “trascendentalismo idealistico”, reo di riconoscere alle categorie di comprensione “una dignità soprastorica […], secondo il procedimento caratteristico di ogni ideologia conservatrice: l’assolutizzazione dell’esistente”, e per attaccare il residuo idealistico delle pur nobili intraprese storicistiche. A quest’altezza – siamo nel 1952 – Solmi ha già riconosciuto in Gramsci l’antidoto al crocianesimo: “ciascuna delle nostre categorie contiene in sé, abbreviata e come in sintesi, la propria storia, e questa storia, per chi sa leggerla, è una storia effettiva, ossia un mutamento reale” (p. 55).
E valutando come un deficit teorico (e forse anche come un carattere dell’idealismo italiano) la necessità del “semistoricismo idealistico” di affermare “l’eternità e trascendentalità delle categorie”, salvo poi riconoscere la storicità stessa del pensiero filosofico, Solmi, da vero dialettico, non può che scorgere in esso un movimento di scissione: da un lato, la necessità di criticare sino in fondo, magari ribaltandolo, il sistema astorico delle categorie; dall’altro, richiamando, grazie a de Martino, la possibilità che senza un corredo trascendentalistico si rischia “di cadere in una forma di filosofia della storia o di storia sacra”, “un’antropofania caratterizzata da fasi e periodi qualitativamente distinti, che, muovendo da un mitico punto di partenza, tenda inevitabilmente a concludersi in uno status definitivo” (p. 60). Per cui Solmi può mostrare con chiarezza quale sia il problema filosofico stringente – e probabilmente la questione che apre le porte alla lezione di Adorno – e, per forza di cose, attuale: “non possiamo nasconderci come, una volta liberato il tempo storico e concreto dalla camicia di forza delle strutture atemporali della filosofia trascendentale, esso manifesti l’irresistibile tendenza a ‘cominciare’ e a ‘finire’, a percorrere una parabola tra un punto di partenza e un punto di arrivo” (p. 61).
Del resto, rileggendo l’introduzione a Minima moralia, qui opportunamente riproposta (per quanto Quodlibet l’abbia ristampata a parte proprio nel 2017), risulta evidente come Solmi con costanza si interroghi, ancor prima di incontrare ufficialmente il marxismo, su quel nesso contraddittorio che informa la storia del pensiero critico di matrice materialista: la possibilità di superare i paralogismi dell’idealismo pur ammettendo l’utilità teorica di quella stagione, nella direzione di una dialettica storicistica assoluta, e in ciò fedelmente gramsciana. Ciò emerge dalle Note sulla questione del rapporto struttura-superstruttura, delle quali colpisce la grande capacità di penetrazione di alcuni luoghi del pensiero di Gramsci (è appena il 1951) e la straordinaria abilità di rilettura delle topiche classiche del marxismo: la sovrastruttura ideologica, filosofica, letteraria non è per Solmi la sede di un’autonomia o di un’indipendenza, ma un sito del processo storico più generale, che non solo è condizionato dalla struttura economica, ma allo stesso tempo condiziona il processo stesso di cui fa parte. Così pure, l’impegno dialettico, del tutto ostile a qualsiasi forma di meccanicismo o di organicismo, risalta nello scritto su Televisione e cultura di massa, in cui i temi adorniani della “falsa” democraticizzazione dei consumi e della “vera” ineguaglianza sociale non assumono mai la ben nota perentorietà delle affermazioni del maestro, ma di quella paziente verifica concettuale e di quello sguardo profondo sul reale che riconosce nuove mediazioni e nuove contraddizioni: “La cultura di massa è […] la versione capitalistico-monopolistica di quell’ideale laico e mondano, di quell’uguaglianza di tutti nel godimento dei beni terrestri, di quella società senza caste e senza classi, che è stata formulato per la prima volta dall’illuminismo e che si può identificare senz’altro col suo nome; e ne rappresenta, nello stesso tempo, la più totale e sfrontata mistificazione” (p. 221).
Solmi ci ha restituito il ritmo del pensiero di Adorno, il suo “grande maestro” (come recita il titolo di un intervento). E mediante questa assimilazione ne ha scorto le criticità. Ha però contribuito a rendere del tutto passive le critiche di irrazionalismo che larghi settori del marxismo italiano avevano indirizzato a un libro come Minima moralia, fin troppo semplicisticamente relegato all’ambito della nostalgia conservatrice. La potenza della critica adorniana si è poi rivelata proficua per la comprensione dell’industria culturale. Ma in Solmi si è arricchita dell’innesto di altri riferimenti, anzitutto di Lukács, alla ricerca – come questa Autobiografia sembra suggerire – di un pensiero critico capace di comprendere la realtà e le sue rappresentazioni, di cambiarla e di contribuire fattivamente alla rivoluzione socialista (sono bellissime le pagine in ricordo di Raniero Panzieri), con un’umiltà di fondo, una grazia di ragionamento, una predisposizione all’offerta di contenuti per certi aspetti lontane e impensabili oggi.
Riferimenti bibliografici
R. Solmi, Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata 2007.
R. Solmi, Introduzione a Minima moralia di Theodor W. Adorno [1954], Quodlibet, Macerata 2017.