In un saggio sulla chōra platonica Jacques Derrida scriveva che «il discorso su chōra gioca dunque per la filosofia un ruolo analogo a quello che gioca chōra “stessa” per ciò di cui parla la filosofia, ossia il cosmo formato o informato dopo il paradigma» (Derrida 2019, p. 99). Soffermiamoci allora su questa definizione che Derrida dà di “filosofia” come «cosmo formato o informato» e sul ruolo che chōra gioca nella torsione di un simile paradigma. Se la filosofia è infatti ciò che è formato, essa avrà bisogno, al contempo, di ciò che forma. Ma tra i due – ciò che è formato e ciò che forma – è necessario che ci sia un “terzo genere”, la chōra appunto, un luogo di cui l’attività formatrice non è altro che esercizio. Un luogo che possa cioè essere comune tanto a ciò che forma quanto a ciò che risulta dall’attività formatrice.

Tuttavia, cosa significa concretamente questo per la filosofia? Innanzitutto, potremmo assumere che essa partecipa di un canone, e che questo canone sia la scrittura della sua storia. Se come affermava Jan Assmann il canone è il massimo grado di fissazione formale di una tradizione (Cfr. Assmann 1997), allora alla storia della filosofia corrisponde un canone formatosi in un certo momento nel tempo e in un certo luogo nello spazio. La storia della filosofia è infatti posta ad origine della civiltà Occidentale stessa, quasi come se la domanda sull’essere (tì èsti?) le permettesse di universalizzare una forma particolare di sapere, temporalmente e spazialmente collocata. Riconoscere la storia della filosofia come un canone, con i suoi corpora testuali e ideali, ci permette allora di osservare all’opera l’attività formatrice che ad esso si accompagna, con le sue decisioni di inclusione e di esclusione. Ma sullo stesso piano dell’attività formatrice e della forma che ne risulta, nel doppio senso della storia e della storiografia della filosofia o del pensiero, esiste anche ciò che permette a una simile attività di esercitarsi e a una simile concrezione di risultarne: il luogo di ciò che è privo di forma, che può dunque accogliere in sé tanto la formazione quanto ciò che è formato, senza che nessuno dei due poli finisca per esaurirlo. È questo, credo, il contesto in cui andrebbe letto Dall’agente al vedente (Mimesis, 2023) di Nishida Kitarō, ultimo volume pubblicato in italiano nella collana dedicata alle Opere di Nishida, nella traduzione di Enrico Fongaro.

Ciononostante, perché accostare un testo come quello di Nishida a un problema come quello del canone e della storia della filosofia? Perché l’Opera di Nishida è innanzitutto un’operazione di traduzione del canone della filosofia Occidentale in direzione di una filosofia mondiale, il che impedisce di isolare nel tempo e nello spazio un testo rispetto al movimento della sua produzione. Dall’agente al vedente, così, più che essere un testo vero e proprio è come uno scalcagnato vascello pirata che dai mari dell’Ovest, dall’Isola di Filosofia, prende il largo in direzione del vasto Oceano, navigando di porto in porto e scoprendo così una nuova forma di accoglienza nel pensiero. Di Nishida viene detto che è stato il primo filosofo giapponese per merito del successo che ebbe Uno studio sul bene (1911) all’epoca della sua pubblicazione – successo che continua a riscuotere persino oggi. Ma si potrebbe almeno in parte correggere una simile affermazione: Nishida è stato tra i primi filosofi mondiali. Non perché ha rappresentato l’interezza della filosofia, come in una sorta di nuova universalità che tenta di sostituire un’egemonia concettuale con la successiva, ma perché è stato il primo a prendere sul serio il confronto con quel canone della filosofia occidentale di cui abbiamo scritto, essendovi al contempo interno ed esterno, a partire da quella che – con Deleuze e Guattari – potremmo chiamare una «letteratura minore». Per Nishida si è trattato, innanzitutto, di ritradurre i concetti della filosofia Occidentale in una lingua, il giapponese, che quei concetti non li aveva accolti nel corso delle sue storie. Una traduzione che ha comportato una radicale trasformazione.

Il problema di Nishida è infatti noto e sembrerebbe per lo più comune alla filosofia, ad esempio, di William James. Esso corrisponderebbe con l’apertura di Uno studio sul bene: «fare esperienza significa conoscere il reale così com’è» (Nishida 2017, p. 17), se non fosse che questa che leggiamo è già una traduzione e al posto del carico ontologico restituito in italiano – ma in inglese, in francese o in tedesco, per fare solo alcuni esempi, non cambierebbe poi molto – c’è invece l’assenza di un discorso sull’essere. Perlomeno sull’essere come sostrato, finanche quello del soggetto grammaticale della frase. Al contrario, già da questa prima proposizione di in Uno studio sul bene possiamo vedere come il reale [jijitsu] nell’esperienza sia ciò che accade così come accade [sono mama]. O, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus, «il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose» (Wittgenstein 1989, p. 8), anche se bisogna mettersi d’accordo sul significato da dare a questi fatti che accadono. In Uno studio sul bene, nonostante la posizione anti-correlativista assunta da Nishida – «quando si fa esperienza direttamente del proprio stato di coscienza non ci sono ancora né soggetto [shu] né oggetto [kyaku]» (Nishida 2017, pp. 17-18) – l’esperienza pura [junsui keiken] pare ancora essere qualcosa di legato a una coscienza o a una volontà. Dall’agente al vedente si colloca qui dove, successivamente con la mediazione di basho (traduzione giapponese di Nishida della chōra platonica), si inizia a smantellare ogni residuo di coscienza e volontà per lasciar spazio a quel jijitsu sono mama, a quel reale che accade nella spontaneità del proprio accadere. Non si tratta più allora di una questione di esperienza, neanche di un’esperienza liberata da oggetti o da soggetti, ma di una filosofia al contempo della trasformazione e della stasi del mondo, in cui da ultimo il soggetto è ricompreso come modo di espressione.

Ci verrebbe forse da pensare che un simile spazio comune di espressione dovrebbe essere qualcosa di definito e che basho, ciò che sembrerebbe l’equivalente nishidiano di chōra, dovrebbe essere un circuito definito con le sue proprietà, all’interno del quale il mondo avrebbe da compiere il proprio sviluppo. Che l’agente, insomma, dovrebbe agire in conformità a principii altri da sé, che rimarrebbero tuttavia principii in un certo senso normativi. Al contrario, Nishida scrive di come:

Alla radice del nostro sé [...] deve esserci qualcosa che nascendo non nasce, muovendosi non si muove [...]. Si potrebbe forse anche chiamarlo nulla [mu], ma non si tratterebbe allora di un nulla che si contrappone all’essere [u], quanto piuttosto di un nulla che ha incluso in sé l’essere. Oppure lo si potrebbe anche concepire come una potenza [senzai], ma non si tratterebbe allora di potenza semplicemente nel senso di un atto [genjitsu] che ancora non si manifesta, quanto piuttosto di qualcosa che ha infinitamente trasceso ciò che può manifestarsi, qualcosa che ha incluso in sé una potenza infinita (ivi, p. 166).

«Alla radice del nostro sé», in questo contesto, ha trasceso definitivamente ogni senso relativo alla volontà di un soggetto, in quanto il sé è semplicemente inabissato nel reale o è sua espressione. Un’espressione che è nulla, ma non nel senso di un’antitesi all’essere o di una sua negazione. Il mu [無] giapponese non nega nulla, non si contrappone all’essere [有、u], ma è già di per sé una forma della spontaneità, nella misura in cui «nascendo non nasce» o «muovendosi non si muove». Ossia, per rendere un simile concetto più chiaramente, il nulla nishidiano non è altro che ciò entro cui ciò che appare si mostra come fenomeno momentaneo di un reale in trasformazione.

Se la filosofia, come ha sostenuto Derrida, è un cosmo che funziona secondo l’ordine – storicamente determinato – degli enti che lo popolano, questi enti nella loro esistenza hanno sempre dovuto fare i conti con concetti quali “essere”, “principio di non contraddizione” o del “terzo escluso”. Ecco allora che Nishida, in un simile panorama, è stato in grado di penetrare lo spazio di gioco della filosofia, trasformandolo radicalmente a partire da un semplice problema di adattamento o traduzione, in cui il “tì èsti?” non si rovescia nel suo contrario, ma appare come un singolo momento dell’autosviluppo del reale, lontano dall’essere l’universale normativo del pensiero.

Riferimenti bibliografici
J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nella grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
K. Nishida, Uno studio sul bene, trad. it. E. Fongaro, Mimesis, Milano-Udine 2017.  
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009.

Nishida Kitarō, Dall’agente al vedente, trad. it. E. Fongaro, Mimesis, Milano-Udine 2023.

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