Insieme a Parasite, Il lago delle oche selvatiche del regista cinese Diao Yi’nan è stato l’altro titolo che ha rappresentato le cinematografie orientali alla scorsa edizione del festival di Cannes. Reduce dal trionfo alla Berlinale con il suo precedente film Fuochi d’artificio in pieno giorno (2014), Diao ha debuttato nel 2003 con Uniform mentre, nello stesso anno, recitava in All Tomorrow’s Parties di Yu Lik-wai, noto soprattutto in qualità di direttore della fotografia che ha contribuito a riplasmare l’estetica del nuovo cinema cinese grazie alle collaborazioni con Jia Zhang-ke, Ann Hui e Lou Ye. Da esponente della “sesta generazione”, alla quale si è soliti ascrivere gli autori che hanno vissuto i tumulti di Tienanmen, Diao ha sdoganato una forma cinematografica adusa all’ibridazione, presagendo il risveglio delle periferie, nello stesso momento in cui si cercava di fare ancora i conti con l’eredità dolente della “quinta generazione”, segnata dall’esperienza diretta della Rivoluzione culturale.
In questo scacchiere, sempre più decentrato rispetto a Pechino, Hong Kong occupa ovviamente il ruolo di periferia per eccellenza, sia dal punto di vista politico sia come fucina di innovazione autoriale, rappresentando un’alternativa contigua, un confine reversibile, un’enclave capace di eludere i dettami accentratori del governo di Pechino. I registi cinesi guardano quindi alla tradizione dell’action movie e del wuxiapan hongkongesi per determinare un punto di fuga dalle forme cinematografiche continentali, di stampo nazional-hollywoodiano, giocoforza imbrigliate nelle logiche politiche, per saggiare altresì una possibile declinazione popolar-coloniale, un controcanto stilistico alla fervida stagione di quell’isola “felice”. I registi della sesta generazione, anche per via del loro costante impegno politico, si sono spesso dimostrati proclivi ad accogliere le suggestioni e a somatizzare lo Zeitgeist che si respirerà nel cinema degli autori della settima generazione (Bi Gan, Li Hongqi, Zhao Liang, Mao Mao), figli del boom economico che si trovano ad affrontare una situazione socio-politica molto diversa rispetto ai loro predecessori.
Con Il lago delle oche selvatiche, Diao si rituffa nel cinema di genere – nello specifico il noir – piegandolo alle istanze “neorealiste” onnipresenti nel cinema nazionale coevo, al fine di sondare la realtà cinese contemporanea, vessata da una netta disuguaglianza sociale e dai dilaganti fenomeni di matrice criminale. Le narrazioni incentrate su un’umanità sotterranea e clandestina che vive di espedienti o che si scontra con il braccio granitico del potere si circonfondono di un’aura nostalgica, affine a quella che permea il cinema hongkongese a ridosso delle handover (la “restituzione” di Hong Kong alla Cina avvenuta l’1 luglio 1997).
Così come questa cinematografia è stata accusata a più riprese di un autocompiacimento e di una vacuità sopperita da una sfacciata tendenza all’estetizzazione e al pastiche postmoderno, anche Il lago delle oche selvatiche non è stato esentato da simili critiche. Ciò che sfugge è tuttavia l’intensa carica nostalgica – di un passato ormai lontano anni luce e di un futuro in cui echeggiano al contempo la promessa di una possibile felicità e la condanna di un destino già stabilito – di cui questo cinema è intriso (si pensi a Hong Kong Express in cui l’amore, assieme a un preciso momento storico, è ormai in scadenza come le famose latte di ananas sciroppato). Determinando l’allontanamento dal realismo, l’estetizzazione – e persino l’accento antirealistico – può aumentare la «forza realistica» (Ejzenštejn 2003, p. 196) del film. Ci si trova di fronte a eventi “immediati” che hanno bisogno del massimo della mediazione per poter essere resi cinematograficamente, di una realtà che si deve costringere «a partecipare all’azione» (ivi, p. 191).
La trama del film è sfuggente, esile, e ruota attorno a un summit tra bande criminali riunitesi per coordinare i furti e il riciclaggio di auto e moto nei vari distretti. Teatro dei fatti è la città di Wuhan, oggi al centro delle cronache mondiali in quanto epicentro dell’epidemia di Coronavirus. La macchina da presa si muove entro un dedalo di strade, di scale labirintiche e di prefabbricati arrugginiti, in uno spazio in cui le luci al neon sono lampi che squarciano il cielo della notte più nera e piovosa. Attraverso una struttura filmica oppositivo-speculare, si osservano i sadici malavitosi spartirsi le sfere d’influenza per indire delle vere e proprie “Olimpiadi del furto”, mentre le forze di polizia lottano per non perdere del tutto il controllo del territorio e arrestare il criminale ed ex-galeotto Zhou Zenong, responsabile della morte di alcuni colleghi.
Similmente a quanto accade nell’opera di Bi Gan (Kaili Blues, Long Day’s Journey Into Night), altro cineasta alla scoperta del Sud, la macchina da presa sonda gli spazi come se stesse “dalla parte dell’evento”: sussulta a ogni esplosione inaspettata, si lascia fuorviare dai ripetuti falsi allarmi, inscenando un movimento tanto consapevole nel suo modularsi secondo ripiegamenti barocchi, quanto stupito nel suo tuffarsi in una realtà criptica ma che non si rinuncia a conoscere. Allo stesso modo all’indugiare sulle qualità formali del movimento danzato, che ricorda quasi la coreografia della bande godardiana, Diao antepone la potenza cinematografica della messinscena “nuda” a ogni afflato narrativo. Esso non diviene materia formante ma orpello, superfetazione, il cui unico scopo è quello di veicolare quel fascio d’energia “selvatica” che è proprio di ogni immagine “pura”.
La sequenza che mostra il raduno della mala concludersi in un’escalation di violenza viene filmata mediante un «tropo-montaggio» che consente «un salto qualitativo […] oltre i limiti della situazione» (ivi, pp. 250-251) e che sembra tributare sia il cinema funambolico di King Hu sia la sontuosità cromatico-compositiva propria degli autori della new wave quali Johnnie To, Patrick Lam e Wong Kar-wai. In tal modo, non solo il soggetto da cui prende spunto il film ha predetto le mosse della malavita che, nella realtà e a stretto giro rispetto all’inizio delle riprese, indiceva un summit che sarebbe poi finito in prima pagina, ma permette di constatare il livello di proliferazione del “virus economico”.
Come accade in maniera diffusa nel cinema di Jia, la corsa al denaro smantella le relazioni e produce un’umanità asservita alle logiche capitalistiche, il cui unico obiettivo glorioso è arricchirsi (a qualsiasi costo e, se necessario, a discapito della legalità) per poter accedere al mondo dei consumi. L’uomo è ridotto a una testa su cui pende una taglia, mostrato nel suo divenire-animale dall’impassibilità coriacea; mentre, al contrario, un cane poliziotto ferito si concede il lusso di divenire-uomo fragile.
Zhou, per certi versi un novello Quinlan, libera la potenza del falso attraverso cui far affiorare una verità tanto costruita quanto urgente e dalle ricadute immediate da risultare inconcepibile dai giustizieri veraci che, come bracconieri immortalati dai flash accanto al loro animale-trofeo, lo lasciano a dissanguarsi sulla riva melmosa del lago. Zhou, più volte ridotto a ombra proiettata sui muri di una scala dalla quale si avvia un atipico e straniante triello leoniano, si fa carico di una spettralità che «divulga la realtà di certe astrazioni» (Epstein 2002, p. 76), profilandosi come promessa della possibile riacquisizione di umanità.
Di ciò viene data conferma nel momento conclusivo in cui il ritrarsi del capitano Liu permette alla prostituta assoldata dal boss di mostrarsi nella sua compassione capace di purificare dalle scorie il denaro altrimenti macchiato di sangue. Più che a degli spettri, ricolmi di rimosso, si è di fronte a «corpi d’ombra» (Rancière), fuori confine e fuori-legge, relegati ai margini simulacrali del mondo, intorno a un lago – presentato in maniera volutamente artefatta – nei pressi del quale sorge uno zoo, luogo in cui animali “per natura” selvatici si trovano a vivere (e morire) in cattività.
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Limes. Non tutte le Cine sono di Xi, n. 11, 2018.
S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica, Einaudi, Torino 2003.
J. Epstein, V. Pasquali, a cura di, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma-Venezia 2002.
Yuxin Jia, The Body in Chinese Characters and Philosophy. The Experiential Nature of Chinese Philosophy, in Intercultural Communication Studies (XVII: 2), 2008, pp. 31-51.
Wu-shan Sheng, L’Eros in Cina. La tradizione cinese dell’erotismo, Longanesi, Milano 1971.
Il lago delle oche selvatiche (Nan Fang Che Zhan De Ju Hui). Regia: Diao Yinan; sceneggiatura: Diao Yinan; interpreti: Ge Hu, Lun-Mei Kwei, Fan Liao; produzione: Green Ray Films, Maisong Entertainment Investment, Memento Films, Arte France Cinéma; distribuzione: Movies Inspired; origine: Cina, Francia; durata: 113′.