Non sono nuovi Aldo, Giovanni e Giacomo – in squadra con Massimo Venier – alle cosiddette «commedie sofisticate»: anzi, secondo Gianni Canova questo specifico genere di commedia sarebbe proprio un marchio di fabbrica del trio, che sul finire degli anni novanta, insieme al regista Varesotto, avrebbe proprio «saputo inventare al cinema un esempio di “commedia sofisticata” più vicina al modello alto di un Vittorio De Sica che ai meccanismi collaudati delle loro gag televisive o cabarettistiche» (Zagarrio 2006, p. 35). Il ritorno alla commedia sofisticata da parte dei comici di Mai dire gol, già evidente in Odio l’estate (2020, che siglava il rinnovato sodalizio con Venier dopo oltre sedici anni di separazione, inframezzati da episodi, in gran parte, di scarso appeal), segna anche il ritorno di molti degli elementi formali che hanno permesso a questo modello filmico di codificarsi negli anni novanta: fra questi, il ricorso agli oggetti canzonettistici, presenti assecondando sia pratiche compilative, con l’inserimento di brani dotati di un elevato grado di predeterminazione formale (compilation soundtrack), che pratiche compositive, con brani inediti (original soundtrack).

L’equilibrio tra la dimensione antologico-procedurale e quella più strettamente autoriale è dato dalla collocazione e dalla messa in scena dei brani sia nella soundtrack, di norma composta dallo stesso autore delle canzoni inedite (i Negrita, Samuele Bersani o – negli ultimi due film – Brunori Sas), che all’interno del tessuto-film, a livello diegetico e di montaggio. Scontata la collocazione nei titoli di coda: «Ripeterei tutto quello che m’hai dato / comprese le tue bugie / perché le scoprirei molto prima e senza aiuto» canta Samuele Bersani alla fine di Chiedimi se sono felice (Venier, 2000), il più grande successo al botteghino del trio, richiamando – in un brano composto per l’occasione (dopo aver disseminato la pellicola di altri suoi successi già noti e di momenti musicali inediti) – il tema della scoperta delle bugie, che pervade tutta la storia. Più complesso, invece, il ricorso a canzoni impiegate all’interno della vicenda. Ne Il grande giorno, ultima commedia sofisticata del trio – firmata, ancora una volta, da Venier – sono due i brani che compaiono all’interno della diegesi, uno originale e l’altro no, a cui se ne aggiunge un terzo nei titoli di coda, secondo una consuetudine di buona parte della commedia italiana degli anni Zero (e non solo – si pensi alle note conclusive di Claudio Baglioni nel dramma socio-individuale firmato da Muccino ne Gli anni più belli, 2020).

I pezzi forti, questa volta, sono all’interno del film, e funzionano da catalizzatori sia della diegesi, che del pubblico (ne sono infatti inseriti due segmenti già nel trailer). Il primo è l’evergreen Maledetta primavera (Loretta Goggi, 1981), rappresentato con debiti non troppo nascosti nei confronti della sequenza al pianoforte di Riky Tognazzi in A casa tutti bene (Muccino, 2018) sulle note di Bella senz’anima; nel film del trio, però, la performance intorno al pianoforte non è l’ultimo momento in cui ci si ritrova insieme, felici, prefigurando nell’unione la successiva diaspora (un po’ come avviene nell’automobile morettiana de La stanza del figlio [Moretti, 2001] sulle note di Insieme a te non ci sto più), ma si configura come un’occasione per abbattere la vena di ipocrisia borghese che pervade nelle famiglie sedute insieme allo stesso tavolo.

Tutti i commensali sono trascinati dalla forza della voce leggermente fuori tono e fuori tempo di Aldo al pianoforte, tranne loro due, i restanti membri del trio – che nella pellicola recitano come un duo (rimarcando, come è già stato notato, una notevole distanza da Baglio, che nel frattempo ha intrapreso una strada cinematografica autonoma): Giovanni e Giacomo. Fintamente amici – come previsto dai codici borghesi più classici –, con tanto di faticosa, paziente, ossequiosa e ipocrita sopportazione (almeno da parte di Giacomo) per ragioni più alte, i due soci della Segrate Arredamenti restano impassibili di fronte alla trascinante dirompenza di un brano che tutti i commensali conoscono, e che quindi non possono limitarsi ad ascoltare, sentendo invece la necessità di parteciparvi, collettivamente, nel canto; la performance inscena un profondo bisogno di comunione da parte delle ricche famiglie, attraverso un coinvolgimento sensoriale multiplo che lascia però impassibili i due milanesi, intaccando persino il rigido cardinale Pineider (uno straordinario Roberto Citran), deputato alla celebrazione delle nozze dei figli dei due colleghi (prima di una catastrofica rottura di tibia e perone), il quale però non si unisce nel canto, ma accompagna il tutto con un timido battito di mani – fino a che non viene colto dalla macchina da presa dietro cui si cela lo sguardo dei commensali, sorpresi da sue azioni così poco liturgiche.

La canzone è sollecitata prima come performance, poi come oggetto ready made, assurgendo almeno a due ruoli. Uno semantico, dal momento che il testo evoca con nostalgia un tempo passato, invocando la necessità di un ritorno di un’età mitica, anche se maledetta (appunto, la primavera), un’età dell’innocenza, a cui i commensali più vecchi presenti al tavolo non sanno quanto, in realtà, desiderino tornare, schiacciati dal peso delle scelte di vita (spesso obbligate) che li hanno condotti sino a lì, a quel coagulo di ipocrisia, e che i più giovani – soprattutto i due promessi sposi – sembrano cercare con speranzosa disperazione, imbrigliati in una forzata unione sponsale che vorrebbero a tutti i costi evitare. Uno intertestuale, dal momento che segna la chiusura del primo atto del film, mostrando come i precari equilibri accennati fino a quel momento siano destinati, forse drammaticamente, ad implodere. Il tutto, per lo spettatore, che si sente un commensale al tavolo, volendo anche lui stesso partecipare al canto (nella sala si è cantato parecchio), è rimarcato dal fatto che il brano rimanda ad un immaginario del passato (quegli anni ottanta che, oggi, ci appaiono così favolosi), che sa di retrò nostalgico.

L’altro brano, Figli della borghesia (che nasce insieme al film, dal momento che Brunori Sas non lo compone per la pellicola, ma lo incide mentre stava lavorando alla colonna sonora, condividendo dunque il medesimo clima compositivo), segna il passaggio dal secondo al terzo atto, siglando la rottura degli equilibri appena esplosa, e facendo così virare la storia dal tono della commedia ad uno più drammatico. Di più: la struttura a cerniera della sequenza del brano svela, attraverso una serie di mini long-take notturni con zoom in primo piano sui protagonisti (sia maschili che femminili), ciascuno immerso nel proprio specifico fallimento storico ed esistenziale, il fil rouge sociale e generazionale che sta sullo sfondo della diegesi.

Noi siamo i figli della borghesia
la quintessenza dell'ipocrisia
siamo i gemelli sui polsini
siamo l'oliva nel Martini,
e siamo figli dell'economia
affezionati alla burocrazia
siamo gli avanzi di un ricordo
siamo il prodotto interno lordo.

Una presa di coscienza drammatica del fallimento di un’intera società e di una generazione – quella dell’età di Aldo, Giovanni e Giacomo (ossia gli attuali sessantenni) che sembra ormai incapace di divertirsi (per questo vede in Aldo, con i suoi meridionalismi fisici, soltanto un distruttore di una quiete conquistata con la fatica e con il lavoro), e non riesce neanche a costruire un futuro fuori dai propri schemi – secondo cui i figli di due amici/colleghi di vecchissima data devono per forza sposarsi tra di loro, anzi, è necessario costruire per loro una vita ad hoc che li porterà a vedere il loro matrimonio come l’unica scelta possibile («la mia generazione ha perso», avrebbe cantato Gaber).

Ci si aspettava, sul finale, un’altra canzone (oltre che di ridere di più), soprattutto dal momento che la storia si conclude con lo scontato annullamento del matrimonio, ma anche con un ritrovo di tutti i protagonisti – ognuno con il suo sostrato di fallimento ormai emerso e non più latente – allo stesso tavolo per mangiare, abbandonando – finalmente – la quintessenza dell’ipocrisia, e lasciandosi andare alla spontaneità. Un nuovo canto-comunione avrebbe tuttavia fatto virare il finale verso un «volemose bene» (per citare ancora una volta Canova 1999, p. 15) che invece è volutamente evitato (come in molti film del trio insieme al regista): Venier si limita infatti a mostrare quella spontaneità che manca al comparto borghese, ipocrita per sua natura, e ad una generazione che deve cercare di raccogliere i suoi cocci.

Il grande giorno allora non è più un grande giorno perché vi si festeggia un matrimonio, ma è il grande giorno della scelta: di tanti io che riprendono in mano la propria vita, ciascuno per conto suo; ma anche di un’intera società (e un’intera generazione) le cui fondamenta ipocrite vengono scosse dalle canzonette, che ne fanno emergere il sostrato più drammatico: da una canzone da cantare, come Maledetta primavera, o da una canzone che risuona sentenziosa dentro i singoli io dei personaggi, come Figli della borghesia.

Riferimenti bibliografici
G. Canova, L’occhio che ride: commedia e anti-commedia nel cinema italiano contemporaneo, Modo, Milano 1999.
M. Corbella, a cura di, La compilation soundtrack nel cinema italiano, in “Schermi. Storie e culture del cinema e dei media in Italia”, n. 7 (2020).
E. Morreale, L’invenzione della nostalgia: il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009.
V. Zagarrio, a cura di, La meglio gioventù. Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, Marsilio, Venezia 2006.

Il grande giorno. Regia: Massimo Venier; sceneggiatura: Aldo, Giovanni e Giacomo, Davide Lantieri, Michele Pellegrini, Massimo Venier; fotografia: Vittorio Omodei Zorini; montaggio: Enrica Gatto; musiche: Brunori Sas; interpreti: Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Aldo Baglio, Antonella Attili, Elena Lietti; produzione: Agidi due, Medusa Film; distribuzione: Medusa film; origine: Italia; durata: 100’; anno: 2022.

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