Tenuto nell’intervallo di tempo che separa gli eventi del Maggio francese dall’espulsione di Lacan dalla sala Dusanne dell’École normale di Parigi, il sedicesimo seminario, pubblicato da Einaudi e intitolato significativamente “Da un Altro all’altro”, segna una svolta. Assumendo la scansione del suo insegnamento in sei diversi paradigmi del godimento proposta da Jaques-Alain Miller, esso inaugura il quinto: il paradigma del «godimento discorsivo» (Miller 2001, p. 24) in cui alienazione e separazione, significante e godimento sono stretti assieme in una circolarità originaria (il quinto paradigma è il paradigma del “rapporto”). Se, viceversa, si assume la scansione più standard dello stesso insegnamento in tre fasi o momenti, il seminario XVI, da leggersi insieme al XVII che lo completa, funziona come la cerniera tra il “secondo” e il “terzo” Lacan, ovvero tra il Lacan del fantasma e della sua attraversata e il Lacan del godimento e della sua scrittura. Non soltanto, infatti, vi si trova enunciata per la prima volta la tesi dell’inesistenza del rapporto sessuale dalla quale il sesto paradigma del godimento, il paradigma del “non rapporto”, prenderà di lì a poco le mosse. L’articolazione tra Altro del sapere e altro del godimento, assieme all’importanza della formalizzazione logico-matematica anche per la clinica psicoanalitica, «la clinica-struttura» (Miller 2007, pp. 81 e sgg), sono qui ribadite con una voce inedita: quella di un Lacan alle prese con la scoperta dell’inconsistenza dell’Altro, ossia con l’unica condizione di possibilità dell’atto oggetto del seminario precedente, il XV, il quale, in modo sorprendente, proprio da un atto era stato interrotto. Il ’68, per il Lacan che vi si affacciava dalla sua finestra, è stata una «grande presa di parola» (Lacan 2019, p. 35). Ma da parte di chi?
A questa domanda, in parte, risponde il seminario XVI. Nel commentarlo Miller dice che Lacan vi si presenta, a un tempo, come il logico e l’avvocato (Miller 2007, p. 81), dunque come colui che, da un lato, suggerisce di passare dal fantasma alla logica – operazione inaugurata col seminario VI e codificata esplicitamente nel XIV – e che, dall’altro, adduce ottime ragioni per farlo. Invero, dopo aver suggerito, nello scritto La signfication du phallus, che il fallo è un algoritmo e aver concluso, nel seminario consacrato alla Logique du fantasme, che il fantasma è un assioma, l’assioma fondamentale che contrae ciò che il sintomo dispiega sotto forma di ripetizione, prima di ripartire, nel seminario XX, le funzioni del primo – il fallo-algoritmo – in rapporto ai due sessi, Lacan si fa paladino, a cavallo degli anni ’68-’69, dell’esigenza di portare la logica – soprattutto quella matematica – nei bassifondi più oscuri del soggetto, compreso quello rivoluzionario. L’essenza della teoria psicoanalitica è, infatti, un «discorso senza parola» (Lacan 2019, p. 5) e qui, ossia sulla lavagna a cui Lacan affida il compito di supportare l’esergo del seminario XVI, “senza parola”, significa “senza soggetto”, “senza soggetto supposto”. Sin dai tempi della sua Sovversione, del resto, la definizione del significante lo ha ridotto a un mero «effetto di fading» (Lacan 2002, p. 803): il soggetto è effetto di un dire del quale il desiderio esprime, al più, «la desinenza» (Lacan 2019, p. 70), perché, quando corrisponde alla struttura minima S1-S2, da leggersi S1 meno S2 e pensarsi come una coppia ordinata sul modello della teoria degli insiemi, il soggetto è barrato, «in polvere» (ivi, p. 307), privo del sapere sul proprio godimento. Sicché non basta reclamare per sé (il für sich hegeliano che Lacan decostruisce con perizia in queste pagine) una “jouissance sans entraves”. L’ostacolo al sapere e al godimento c’è sempre, anche quando a piccolo, alla fine di un’analisi, è evacuato per il tramite dell’analista che se ne fa funzione.
Per Lacan il soggetto non ha altra esistenza che nel significante che lo rappresenta presso un altro significante, ma che lo rappresenti, durante tutto il suo insegnamento, significa che lo manca. Rappresentato, il soggetto non è mai rappresentabile, mai presente. E siccome “soggetto”, a partire dal seminario XVI, significa “godimento”, ciò che non è mai presente è proprio quest’ultimo. apiccolo è, di fatto, solo la «causa sostituita» (ivi, p. 345) alla faglia che dilania il soggetto e che, in quanto divisione strutturale, non può, con buona pace delle fantasie e delle manovre perverse, essere soppressa (ivi, p. 137). Il significante, è vero, veicola sia un soggetto che manca a sé stesso sia un godimento che insiste come (il suo) oggetto perduto. Eppure, dal momento che il significante non è mai da solo (un significante non può auto-rappresentarsi; l’Altro è un insieme vuoto), la rappresentazione che inaugura è, per definizione, incompleta. L’Altro come tesoro dei significanti è tale, cioè tesoro, solo in quanto è un «vacuolo» dice Lacan (ivi, p. 228), vale a dire solo in quanto è bucato, bucato da quell’a che lo «in-forma» e presso cui si «in-cava» a spese dell’Io (ivi, pp. 209 e p. 309). Il luogo dell’Altro, evacuato dal godimento, è, in questo senso, «piazza pulita, terra bruciata, spazio aperto al gioco dei ruoli» (ivi, p. 221) e lo è, si badi, non malgrado, ma grazie al fatto di essere strutturato dall’incidenza significante. È il significante, in definitiva, che vi introduce quella mancanza o barra che il primo Lacan chiama “faglia beante” e che l’ultimo, quello inaugurato dal seminario XVI, intende come una «perdita costitutiva» (ivi, p. 151).
Opponendosi al Pascal che invita i libertini a scommettere a favore dell’esistenza di Dio nell’intento, bisogna dirlo, di convertirli, Lacan insiste nel sottolineare che quello che è in gioco in ogni scommessa è, in realtà, «già perduto» (ivi, p. 173). L’oggetto apiccolo non ha valore né di scambio né d’uso (ibidem), perché la novità introdotta dal sedicesimo seminario è che il sapere manca anche all’Altro. O meglio: la novità è che l’Altro sa, «com’è evidente dal momento che è il posto dell’inconscio» (ivi, p. 359). Solo che – continua Lacan – «non è un soggetto» (ibidem). Nella formula “non c’è soggetto supposto sapere”, infatti, la negazione riguarda il soggetto, non il sapere. Questo almeno suggerisce a chiunque la minima esperienza dell’inconscio: «In essa non si sa mai chi è che sa» (ivi, p. 360).
L’Altro si sa, ma il godimento è escluso da questo sapere, escluso proprio nella forma del piccolo a: «L’effetto dell’entrata in gioco» (ivi, p. 154) o, come dice il Pascal cui Lacan dedica la seconda sezione del seminario, l’effetto dell’«essere impegnati» (ibidem); a piccolo è ciò che si produce nel sapere come godimento: una perdita, quindi, ma significantizzata come supplemento o, per usare le parole dell’altro grande interlocutore del seminario XVI, il Marx del Capitale, come plus-godere. Lacan lo definisce «la funzione della rinuncia al godimento per effetto del discorso» (ivi, p. 13), la conseguenza primaria di quel “colpo di forbice” in cui, se si intende la “serietà dello strutturalismo” (ivi, p. 6), si risolve la banda di Moebius (ivi, p. 25). In quanto tale, ossia in quanto «uno in più» (ivi, pp. 374 e sgg.), il Mehrlust è il di-vertimento, l’evacuazione della propria fettina di jouissance (Miller 2001, p. 33) dal mercato di A grande. Lacan lo introduce come «tutto ciò di cui si può godere» (ibidem) e, parallelamente, come ciò che permette di isolare la funzione dell’oggetto a mostrando il carattere logico, più che ontologico, della sua genesi. Nel seminario XVI la scrive ricorrendo alla formula 1-a (da leggersi 1 meno a) e, subito dopo, la equipara a un’altra scrittura: 1+a. Perché?
Quando si tenta di formalizzare la struttura logica del godimento si trova che, alla rappresentazione del soggetto nell’ordine significante (1-a), corrisponde immediatamente una perdita (1+a). Il soggetto, infatti, “«qualunque sia la forma in cui si produce nella sua presenza, non può raggiungersi nel suo rappresentante di significante senza che si produca quella perdita di identità che, per essere esatti, si chiama oggetto a» (ivi, p. 15). Detto altrimenti, sapere e godimento conoscono una reciproca positivizzazione: del soggetto in quanto dipendenza dal desiderio dell’Altro e del godimento erotico (ivi, p. 320). Ed è solo attraverso questa nuova versione dell’anaclitismo (ivi, p. 300 e p. 320) che è possibile cogliere «il punto di ingresso attraverso cui la struttura del soggetto fa dramma» (ivi, p. 320) provocando lo scoppio (éclosion) della nevrosi. Lacan lo pensa sul modello dello scatenamento (déclenchement) psicotico a partire dal caso del piccolo Hans, convinto che la fobia non sia un’entità clinica isolabile bensì una «piattaforma girevole» (ivi, p. 305). La fobia, cioè, è una figura illustrata più che una struttura illustrante, perché la sostituzione di un significante che fa paura all’oggetto che angoscia è un’operazione comune tanto alla nevrosi, sia isterica che ossessiva, che alla perversione. Quando, in effetti, le si guarda col logos anziché col pathos (Miller 2007, p. 69) ci si accorge ben presto che in ciascuna ne va dell’angoscia suscitata da un enigma e della sua «manipolazione» (Lacan 2019, p. 240) nachträglich: complementare nel caso della nevrosi, supplementare nel caso della perversione (ivi, p. 256). Più nel dettaglio, spiega Lacan, il nevrotico punta a farsi riconoscere come uno dall’Altro nel tentativo di fornirgli l’uno che gli manca e che non è – dunque A+1o, come scrive Lacan, s(A). Il perverso, invece, ambisce a restituirgli ciò che ha perduto nella speranza di sanarne la faglia – e quindi A+a o, come scrive Lacan, S(A). In ogni caso, però, ciò cui si assiste è una riduzione dell’Altro all’uno alimentata dall’insofferenza per la loro radicale eterogeneità.
In sostanza, sia che si punti a completare l’Altro, sia che si cerchi di tapparne il buco «dando a Cesare quel che è di Cesare» (ivi, p. 299), ciò che si decide di non affrontare procedendo a questa sostituzione è che l’Altro si altrifica – questo significa che si incava o informa in a piccolo – e che il movimento con cui A diviene altro rispetto a sé stesso condensato nel titolo, perciò significativo, del seminario XVI, non è un movimento analogico. Non c’è misura della perdita di a nel campo di A: che l’Altro del sapere o del significante sia concomitante all’altro del godimento o della verità vuol dire, piuttosto, che è irrelato rispetto ad esso e che il moto a luogo, in realtà, è un moto a vuoto, un moto che gira a vuoto o in tondo rispetto a quell’unico prossimo di cui ha senso parlare da un punto di vista psicoanalitico: il godimento. Lacan, in queste pagine, ne fa qualcosa di assolutamente reale perché, pur non essendo simbolizzato da nessuna parte nel sistema del soggetto, il godimento “ritorna dappertutto” (ivi, p. 32). L’esclusione del godimento dal sistema è, difatti, «tutto ciò per cui il godimento si realizza» (ibidem) e la «clinica-struttura» deve pensarla prendendo per il verso buono, il rovescio di quello del maggio ’68, l’utopia. In luogo di «rassegnare le dimissioni» (ivi, p. 235), preoccupato dall’autonomizzarsi vorticoso del sapere rispetto al potere, lo psicoanalista deve dedicarsi a svelare la relazione del sintomo col godimento arrivando al punto, godeliano più che pascaliano, marxista più che sartriano, in cui “o testa o croce” (ivi, p. 121), o dentro o fuori…l’École normale! (“normale” è anche il paradigma precedente: il quarto). Questo è il punto-polo del reale assoluto, punto infinito cui Lacan associa quella consistenza logica che, sola, in tanto può «liberare il nevrotico dalla supposizione» (ivi, p. 386) della consistenza ontologica di A, in quanto gli permette di sostituire alle tracce anonime del sapere «la firma» (ivi, p. 312) di una verità che dice Io, ma «alla terza persona» (ivi, p. 55): quella della «tigre di carta» (ivi, p. 321), il più-di-godere escogitato da Hans per «non lavorare troppo» (ivi, p. 107).
Riferimenti bibliografici
A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001.
Id., “Une lecture du Séminaire D’un Autre à l’autre”, in La Cause freudienne, vol. 66, n. 2 pp. 51-89, 2007.
J. Lacan, Scritti, voll. 2, Einaudi, Torino 2002.
Id., Il Seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro (1968-1969), Einaudi, Torino 2019.
*L’immagine in anteprima è un dettaglio della copertina del libro.