Genova ha segnato il distacco tra movimenti e immagine. Per la prima volta nella storia, un movimento si è impiccato alle sue stesse immagini. Non si dimentica la bellissima ultima arringa della difesa in cassazione: le ultime parole prima delle condanne a più di un secolo di carcere, splendide e tardive. Forse riesco a citare a braccio: “State per condannare dei giovani per delle fotografie di cui voi avete scritto le didascalie, attimi staccati che voi avete arbitrariamente ordinato e unito”.
Nelle parole, anche nel suono e nel tono, si percepiva il rimpianto per qualcosa che c’era stata e si era perduta. Il rimpianto per un tipo di immagine che aveva in sé la didascalia e la firma. Un’immagine con una vita e una dignità propria, più forti di qualsiasi parola, più forti di qualsiasi didascalia. Sono quelle immagini che ci consegnano l’anima e il senso dei movimenti del passato. Quando c’è conflitto, è dai movimenti che irrompe l’immagine nuova, amabile e inattaccabile.
A Genova noi abbiamo assistito a un gigantesco safari fotografico in cui i propri compagni, il sangue dei propri compagni, la morte del proprio compagno diventano trofei. Le immagini smettono di essere segni di un amore sconfinato ed assoluto e diventano merce per un possibile mercato, per una possibile carriera, o – peggio ancora – oggetti di vanto con gli amici sui social. Questo tipo di immagini hanno usato i giudici per il loro secolo di carcere.
Movimenti del passato vivono nella memoria per le loro immagini. Sono immagini esseri viventi, non oggetti che prendono il senso della didascalia, del verbale, della denuncia. Soggetti, non oggetti. Sui fratelli, sulle sorelle uccisi si sono sempre tentate montature. Le fotografie si inginocchiano sull’asfalto e puliscono i loro volti, per sempre. Senza mercato, senza spettacolo, con amore, misericordia, dignità. Così la grande pittura, le Pietà delle chiese, dei musei, dei libri di storia e di storia dell’arte.
Le immagini di movimento sono amabili e inattaccabili. Quando c’è conflitto, è dai movimenti che irrompe l’immagine nuova, il nuovo modo di guardare, il nuovo modo di vedere. Sempre più amabile e avvincente. Dagli ultimi istanti dei fratelli uccisi non si è mai dissociato nessuno. A Genova, persone che per sorte e per ruolo avrebbero dovuto abbracciare e cullare la memoria di Carlo, hanno sentito il bisogno di dissociarsi. Le fotografie di movimento hanno una loro amabilità, una loro gradevolezza qualsiasi cosa raccontino. Hanno le linee della verità e della giustizia, cercano e spingono a cercare la bellezza della verità e della giustizia. Non ricattano mai nessuno. Cercano solo di farsi amare e ricordare. Rimangono nella memoria anche se non appaiono mai sui grandi giornali.
Le immagini che i giornali hanno pubblicato di Genova non hanno nessuna astrattezza, sembrano più figlie delle macchine che degli uomini. Nessuna riesce ad andare al di là del suo senso letterale, al di là del singolo istante ripreso da uno specchio inanimato e acritico. Non c’è alcuno spazio per le motivazioni, per le istanze, per il contesto. Non c’è spazio per il prima, per i timori del dopo. Non hanno anima. Neanche i fotografi mostrano anima.
Ha vinto un modo poliziesco di concepire le immagini. Ha vinto il modo di pensare alla fotografia come qualcosa che inchioda ad un istante. È il peccato originale della fotografia, nata per schedare, per controllare. Qualcuno pensa che si possa fare a fin di bene. Non c’ho mai creduto.