Attenzione: l’articolo contiene uno spoiler. Sellerio ha intrapreso la meritoria iniziativa di ripubblicare i romanzi di Graham Greene, maestro della spy story. Con la pubblicazione quest’anno de Il fattore umano l’impresa giunge al terzo titolo. Tra l’altro, proprio in questi giorni è uscita in dvd la versione restaurata dell’omonimo adattamento cinematografico, girato da Otto Preminger e uscito appena un anno dopo il libro. Il genere giallo inteso in senso ampio è uno dei settori di punta della casa editrice palermitana. Sarebbe però un errore prendere i romanzi di Greene come un caso, assai ben riuscito, di un genere di nicchia o peggio d’intrattenimento. L’autore inglese porta la spy story a uno dei suoi vertici letterari e ne fa – questa è la tesi che vorrei sostenere – una chiave d’accesso privilegiata per comprendere il travaglio etico, prima ancora che politico, che ha attraversato il XX secolo. Mi permetto di aggiungere che, in un’epoca in cui la natura sembra costringere l’umanità ad affrontare di nuovo grandi crisi globali mentre il mondo è attraversato da una crescente instabilità geopolitica, il libro di Greene appare come un presagio della nostra futura condizione esistenziale e dei suoi possibili dilemmi.

Il fattore umano è un romanzo della maturità dello scrittore, uscito nel 1978. Giornalista e viaggiatore, Greene è stato anche agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. Anche se il racconto è di fantasia, è intenzione dell’autore far risuonare in esso la sua esperienza di spia, spogliando questa professione dell’aura eroica e avventuriera di cui lo ammanta volentieri il nostro immaginario: non sono casuali i frequenti accenni ironici alla figura di James Bond. Il tipo dell’agente segreto descritto da Greene è un normale impiegato ministeriale, salvo trovarsi a maneggiare documenti riservati provenienti da una rete più o meno opaca di contatti sparsi sul globo.

Al centro della vicenda c’è una fuga di notizie riservate: il controspionaggio sospetta uno degli agenti della Sezione 6A, che si occupa dell’Africa orientale e meridionale. Come ricorda Domenico Scarpa nella postfazione, il tema dell’infedeltà attraversa tutta l’opera di Greene. È un modo di presentare l’opinione che la buona riuscita nel lavoro di una spia non passa necessariamente per la divisione manichea tra buoni, i “nostri” di cui vanno custoditi gelosamente i segreti, e cattivi, i “nemici” di cui vanno scoperti i piani. Ma è anche un modo di presentare la propria personalità di scrittore convinto che la «ricerca della verità attraverso la slealtà» (Greene 2020, p. 455) costituisca l’autentico compito etico dello scrittore. Non è un caso se nel 1969 Greene tenga ad Amburgo un discorso dal titolo The Virtue of Disloyalty.

Protagonista del romanzo è Maurice Castle, per tutti in ufficio Mr. Castle. Dopo essere stato agente a Pretoria, dove ha conosciuto sua moglie Sarah, attivista nera contro i boeri, Castle conduce un’anonima esistenza di maturo funzionario: la moglie, il figlio Sam, il cane Buller e una villetta bifamiliare in un sobborgo fuori Londra. Suo diretto superiore è l’incolore Watson, suo subordinato il giovane Davis; oltre a loro frequentano la sezione la segretaria Cynthia, figlia di un generale, di cui è innamorato Davis, e poche altre segretarie, tutte figlie di alti ufficiali e funzionari. È su di loro che si appuntano i sospetti del loro capo, Sir John Hargreaves, del suo vice, il Dottor Percival, e del Colonnello Daintry del controspionaggio, chiamato a svolgere l’inchiesta.

Con notazioni rapide e precise Greene rappresenta lo snobismo che anima i servizi segreti britannici, che dopo la fine del secondo conflitto mondiale sopravvivono alla gloria del tramontato impero. Le segretarie, vuoi per i natali vuoi per la mansione, escono subito dal gioco dei sospetti; così l’incolore Watson. Ai loro occhi Castle è il candidato ideale per essere innocente: sebbene non sia ricco e viva in provincia, ha studiato a Oxford e può vantare relazioni almeno indirette con i vertici; inoltre ha avuto un’esperienza sul campo, in Africa, di cui l’anziano Hargreaves ancora sogna gli anni passati tra capi tribali e sciamani; non beve (in pubblico) ed è un impiegato puntuale e meticoloso. Al contrario Davis è il candidato ideale per essere il colpevole: ha studiato nella meno prestigiosa Università di Reading; condivide un appartamentino in centro con dei giovani impiegati del Ministero dell’Agricoltura ed è laburista; si atteggia a uomo di mondo, ma le sue spese per i vini pregiati e per le scommesse sono sospette, almeno quanto le sue aspirazioni amorose e professionali; infine è sempre in ritardo e spesso porta fuori dall’ufficio documenti riservati durante la pausa pranzo.

Daintry, con la sua pedanteria poliziesca bisognosa di prove, prenderebbe tempo per le indagini. Ma Percival – vero concentrato di snobismo anglosassone: reazionario che limiterebbe il diritto di voto, eppure socio del Reform Club a causa dell’ineccepibile trota lì servita – insiste per leggere nei semplici sospetti una certezza e ottiene da Hargreaves l’autorizzazione a eliminare Davis prima che scoppi lo scandalo. Ma a metà del libro avviene il colpo di scena: è Castle il traditore. Greene lo lascia intuire prima di rivelarlo e in modo sapiente coinvolge il lettore nella tensione narrativa: dalle anonime abitudini di impiegato (un salto dal libraio prima di prendere il treno, una telefonata da una cabina pubblica) quest’ultimo vede emergere all’improvviso le azioni di un doppiogiochista che passa documenti ai sovietici. È questa la prima occasione per riflettere sulla “virtù della slealtà”. Castle non tradisce per denaro o perché è comunista: Castle vuole aiutare i movimenti appoggiati dall’Unione Sovietica e in lotta contro l’apartheid e i boeri, alleati del blocco occidentale. La sua slealtà è al servizio di una missione politica e tocca princìpi fondamentali come la libertà e l’uguaglianza. Solo un agente segreto, data la sua particolare posizione, potrebbe vedere lo stato di cose da un simile punto di vista ed esercitare una “filosofia cosmopolitica” così avanzata.

A metà del romanzo l’autore scopre le carte di fronte al lettore: è l’occasione per rileggere la vicenda umana di Castle da un’altra prospettiva. Prudentemente Castle decide di interrompere i contatti con i sovietici dopo la morte di Davis. Avviene però un fatto inaspettato che rovescia la sua decisione. L’ufficio decide di affidargli i colloqui con Muller, dirigente del BOSS, il servizio segreto sudafricano. I colloqui riguardano un’operazione segreta che vede coinvolti americani e inglesi insieme ai sudafricani per neutralizzare l’influenza sovietica in Africa; i sudafricani vedono nella collaborazione una garanzia di sostegno al loro regime. Ma Muller è l’agente che tentò di impedire a Castle di far espatriare la moglie Sarah ed è responsabile della morte in prigione di Carson, l’attivista che aiutò Sarah a scappare. Castle ha un debito di riconoscenza da onorare.

L’agente decide quindi di far arrivare un ultimo rapporto ai sovietici dopo aver interrotto i contatti con loro: è così che si tradisce ritrovandosi senza più sostegni, costretto a separarsi da moglie e figlio. Il silenzioso ma costante senso di colpa che Castle prova per il fatto di tradire la patria rivela un inatteso ma altrettanto profondo sentimento di lealtà verso l’amicizia e gli ideali che accomunano due esseri umani. Solo un erede tanto coerente quanto originale del romanzo inglese moderno poteva mettere in scena una simile variante sul tema del senso morale. Greene non ne mostra il lato più conciliante, quello della naturale inclinazione al bene o dell’utilità marginale delle nostre azioni, ma quello della varietà e perfino della contraddittorietà dei sentimenti: ciò che da una parte appare come deviazione dal comportamento retto dall’altra si mostra come rigore morale. Greene sembra aver studiato alla scuola di Hume più che a quella di Hutcheson o Smith.

C’è infine un terzo livello, che occupa i capitoli finali del libro. Dopo aver affrontato i propri fantasmi politici ed etici, Castle, salvato infine dai russi e condotto a Mosca, fa i conti con il paradosso esistenziale della lealtà verso se stesso. Solo in terra straniera e finalmente a contatto con la sua controparte nel KGB, l’agente inglese capisce di non aver servito la causa della liberazione dei neri in Sudafrica: le informazioni che forniva, considerate ininfluenti dai sovietici, erano usate solo per autenticare rapporti falsi fatti pervenire ai servizi segreti occidentali da un informatore mendace, un simulatore del tradimento che lui ha veramente compiuto in nome dell’amore, dell’amicizia e di un ideale. Nella ricerca dell’autenticità che lo accompagna dall’inizio del libro, il protagonista si scontra infine con la legge dello spionaggio per cui le informazioni sono fatte circolare affinché siano inutili.

Riferimenti bibliografici
G. Greene, Il fattore umano, Sellerio, Palermo 2020.
W. Iser, L’atto della lettura, il Mulino, Bologna 1987.
S. Kracauer, Sull’amicizia, Guanda, Milano 2010.
D. Scarpa, Postfazione a “G. Greene, Il fattore umano”, Sellerio, Palermo 2020. 

G. Greene, Il fattore umano, a cura di D. Scarpa, Sellerio, Palermo 2020.

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