Se vi è un tratto comune alla recente produzione filosofica di Paolo Godani, questo è certo il gesto con il quale, mentre afferma l’inesistenza di entità individuali, si riappropria di una metafisica del comune. Se in Tratti (Ponte alle Grazie, 2020) veniva indicata una via d’uscita dal giro a vuoto di un’individualità pensata come «unica e irripetibile» (Godani 2020, p. 15) attraverso singolarità comuni e ripetibili, nel più recente Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona (Neri Pozza, 2021), mediante un’analisi delle condizioni in cui si è prodotto l’abbandono della metafisica, vengono indicate nel personalismo e nel vitalismo le cause genetiche di un pensiero sempre più strutturalmente introflesso, e per questo sempre meno in grado di pensare la trama di un cosmo comune.

Allo stigma lanciato sulla postura metafisica – quest’ultima definita dal corpo pensato come «espressione del cosmo» (ivi, p. 7) – è seguita per Godani una svolta antropologica, in cui ad essere al centro dell’esperienza del mondo e di noi stessi è unicamente il limite imposto dalla corteccia che separa un interno personale da un esterno oggettivato. Venendosi così a stabilire un legame tra la nascita del concetto di persona e la fine della metafisica, si è reso necessario ripercorrere le tracce di quel sentiero che ha portato a considerare il soggetto come un’entità separata, e in buona parte indipendente, da un essere pensato unicamente come resto. Non c’è, tuttavia, un singolo momento – un evento o un autore della storia del pensiero – che avrebbe causato la negazione della metafisica in favore dell’identità d’una personalità finita, vivente, dotata d’un proprio carattere e responsabile di sé, ma linee di tendenza, che hanno attraversato virtualmente l’intera storia della filosofia. In particolare, Godani individua due temperie, in cui si è concretizzata la possibilità di caratterizzare l’esperienza come proprietà esclusiva di una persona:

La perdita del cosmo non è avvenuta una volta soltanto. Potremmo dire che se la prima volta coincide con la dissoluzione delle potenze cosmiche in favore del mistero di un corpo di carne, la seconda volta è certamente quella in cui, tra il XVIII e il XIX secolo, l’universo infinito contemplato dalla filosofia e dalla scienza moderne, perdendo la propria pienezza e continuità, inizia a ripiegarsi sulla vita, custodita nel mondo chiuso degli organismi individuali e sentita ormai come unico senso dell’essere (ivi, p. 107).

La prima volta, dunque, coincide con quel processo che, a partire dalla ricezione dell’eredità greca nel mondo romano e cristiano, trasforma le potenze “esterne” che agitano i corpi, pensati in questo senso come «superfici di registrazione» (ivi, p. 34), in passioni carnali interne. In questa maniera, riprendendo il ritmo che scandiva i capitoli del precedente Tratti, il pensiero greco potrebbe essere considerato come l’infanzia delle cose del mondo. Anche in questo caso, la cultura greca – campo di forze e di soglie sempre disponibili ad essere irritate – «non è forse così lontana e inoffensiva come si vorrebbe credere» (Godani 2020, p. 22). Infanzia della storia, dunque, ritenuta non come edenico cominciamento, informale al di qua di ogni cronologia, ma come virtualità immanente, illuminazione anacronica che va diradando la nostra pretesa di controllo sul corpo proprio, mediante le intensità variate del cosmo. Il canone della carne, al contrario, in questo quadro si presenta come dominio del corpo vivente, che può nascere e morire, e per questo è soggetto alla finitudine della propria natura. Un corpo desiderante, quello carnale, da purificare attraverso l’esaurimento delle proprie opere, per poter accedere alla resurrezione di questa stessa vita individuata, e non di un’altra. Il vivente umano è così localizzato attraverso il desiderio di estensione di un’esistenza definita, nella propria unicità e irripetibilità.

La seconda volta per Godani coincide invece con una frattura ontologica, quella istituita tra il vivente e il non-vivente dall’ideologia onto-biologica. Una deriva, questa, che spingerebbe a considerare la morte come limite della vita, in grado di richiudere in sé l’organismo individuale, contraendolo con la minaccia d’una corrosione dall’esterno. La morte, o più in generale il nulla, circondando così l’essere, finirebbe per farlo corrispondere a un vivere assediato, escludendo dal campo delle «cose che sono» ogni altro ente che, non progettandosi a partire dalla propria finitezza, verrebbe ridotto a «semplice-presenza» (ivi, p. 128) – un ente che, nel suo semplice stare, non avrebbe alcun rapporto con il divenire. L’introflessione nell’interiorità vivente è così gravida di conseguenze, di cui la prima è forse la possibilità di marcare ogni eccezionalità personale con un carattere proprio, dotato di un linguaggio privato o coscienziale. Il linguaggio, dunque, da «ciò che c’è di più comune» si è visto «ridotto a una sorta di monologo interiore» (ivi, p. 146), attraverso il quale descrivere l’incomunicabilità del nucleo irripetibile che dà forma all’individuo.

Così, una volta redatta la formula di una coscienza parlante, causa sui, in grado di agire per proprio decreto, per mezzo dell’apertura di uno spazio interiore nelle profondità dell’individuo, è stato possibile imputare la responsabilità di atti determinati a un soggetto localizzato. Ossia, affinché «l’imputazione [risultasse] effettiva» si è reso necessario «isolare la persona dal mondo di cui è parte» (ivi, 175). Il destino assegnato a ciascuno è allora causato da una libera scelta, compiuta da una volontà indipendente da ogni implicazione con il cosmo, invece di toccare in sorte a seconda del modo d’irradiarsi della molteplicità di potenze che danno trama all’essere. Se l’individuo è causa sui ed è l’unico vivente, il non-vivente, l’inorganico, ma anche tutte quelle esperienze di soglia che non rientrano né in un caso né nell’altro, sono considerati come semplice «materia informe e priva di senso» (ivi, p. 183), bisognosa dell’intervento umano per essere insufflata di significati altrimenti assenti. Il cosmo, tuttavia, è presentato da Godani come quell’informità che non sa che farsene dei significati con i quali tentiamo di vivificarla.

Il corpo e il cosmo, mostra così che il destino dell’individuo, se inscritto nel paradigma della persona, non potrà che essere quello – compreso all’interno di un’esistenza colpevole – di un isolamento da ogni spazio comune. Tuttavia, non si tratta di un destino irrevocabile, ma solamente di una tra le varie possibilità che potevano accadere al pensiero. Per uscirne, la linea che Godani intraprende passa da quella che con Musil chiama la «decomposizione del rapporto antropocentrico» (ivi, p. 176), ossia dalla soppressione della responsabilità personale per accedere a una più ampia e variata «concatenazione delle cose» (Ibidem). Questa, non più esclusivamente dipendente da una causalità ridotta al solo arbitrio di una volontà libera, si dà il compito di rivolgere nuovamente attenzione alle nozioni comuni – secondo genere di conoscenza nel progetto dell’Etica spinoziana –, intimamente collegate al modo di concepire i «rapporti [tra i corpi] e la loro unità di composizione» (Deleuze 2016, p. 112).

Espressioni del cosmo, sotto questo aspetto, i corpi sono anche aperti all’incontro, non nel segno del proprio segreto, ma per effetto di «tratti singolari e comuni» (Godani 2020, p. 210) che si annodano per formare costellazioni con gradi variabili di stabilità. Gli esseri umani, inseriti in questa nuova serie di concatenamenti, possono così tornare ad essere metafisici, nel loro persistere come entità finite nel godimento delle espressioni di una natura infinita.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Orthotes, Napoli-Salerno 2016.

P. Godani, Tratti. Perché gli individui non esistono, Ponte alle Grazie, Milano 2020.

Paolo Godani, Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, Neri Pozza, Vicenza 2021.

Tags     comune, cosmo, Paolo Godani
Share