Mi ritrovo in un ambiente pervaso di luce candida, tra pareti di vetro su cui i raggi solari formano sagome ologrammatiche; grandi anelli sospesi a mezz’aria sembrano roteare nel vuoto e attrarre vorticosamente l’eco dei miei passi, mentre procedo fra teorie di sedie vuote, bianchissime, rivolte verso uno schermo immaginario. Lo spazio mi circonda e mi immerge nel suo lucore fino a farmi sentire altrove, in uno scenario sospeso nello spazio e nel tempo – un luogo assolutamente virtuale, eppure così reale. Svelerò il nome di quest’opera solo nelle ultime righe dell’articolo, solo dopo aver reso conto di alcune delle ragioni per cui mi pare che – ancor più che nelle sue due edizioni precedenti – la sezione delle opere in Realtà virtuale della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 77 sia votata alla delocalizzazione, ma al contempo metta in luce alcune criticità e una certa resistenza del locus.
Anzitutto non sono a Venezia. Grazie alle costrizioni del Covid-19 infatti Venice VR quest’anno è stata ribattezzata “Expanded” e ha raggiunto la sua location naturale: ovunque. Se nella scorsa edizione era visitabile in uno spazio attrezzato al Lazzaretto Vecchio (comunque su un’isola, letteralmente a pochi metri dal Lido ma pur sempre un luogo già a parte), dal 2 al 12 settembre una sala espositiva online è stata accessibile anche da casa con un qualsiasi pc (in modalità video a 360°) o con il proprio visore VR attraverso una piattaforma appositamente realizzata da VRrOOm e sui server di VRChat, con il sostegno di operatori del settore come HTC Viveport e Facebook’s Oculus. Raggiungere la sala online non è in realtà così semplice, occorre registrarsi, installare alcuni software, creare un account e preferibilmente avere un visore avanzato (magari con i controlli tattili) per poter godere pienamente delle potenzialità espressive delle diverse opere. Lo store di Viveport sembra essere quello che consente la fruizione di un maggior numero di progetti e di esperienze a 6 e non solo 3 “gradi di libertà”, ovvero quelle che prevedono, oltre al movimento della testa in tutte le direzioni, anche il movimento del corpo nello spazio e l’interazione tattile con gli oggetti virtuali.
Lo sforzo di rendere tutta (o quasi) la sezione disponibile online, ovunque e a chiunque in autonomia mette in evidenza alcuni dei problemi che in questi anni, nonostante i proclami, hanno frenato la diffusione della VR: la diversità dei formati e degli standard, il costo ancora elevato dei visori avanzati, la varietà delle forme fisiche di fruizione. Forse consapevole di questi limiti, Venice 77 ha provato a fare di più e ad espandere la delocalizzazione anche in senso fisico, creando una rete “satellite” di 15 spazi in diversi continenti (Canada, Stati Uniti, Cina, Taiwan, Russia, Svizzera, Francia, Spagna, Germania, Danimarca, Paesi Bassi, Turchia e Italia) che hanno ospitato, nei soli dieci giorni della mostra, le opere VR in concorso e fuori concorso. Tra le location italiane, il museo M9 di Mestre (comunque un’appendice veneziana) e i “Laboratori Aperti” di Modena e Piacenza.
Allora prendo e vado a Piacenza e la mia decisione mette in risalto un altro aspetto problematico interessante: la VR è un’esperienza fruibile individualmente attraverso dispositivi di dimensioni relativamente piccole (e i visori stand-alone come Oculus Quest non hanno neppure bisogno di pc o di cavi), ma sono ancora lontani da una effettiva diffusione domestica. Kinetoscopi contemporanei, i “caschi” sono device personali, ma tendono a dover essere condivisi presso uno spazio adeguatamente attrezzato. All’individualità dell’esperienza fa da contraltare la necessità del luogo, che è ancora pienamente parte del dispositivo della realtà virtuale.
Eppure cos’è la VR se non la sostituzione dello spazio reale con un ambiente alternativo creato digitalmente? Questa contraddizione vale ancor più se si mette a fuoco in senso più fenomenologico la questione della delocalizzazione fisica. Già nel resoconto della scorsa edizione si mettevano in evidenza alcune criticità specifiche della VR, soprattutto rispetto al posizionamento dello spettatore all’interno del mondo virtuale e della sua propensione ad agire e interagire con le entità che lo popolano. Inevitabilmente, qualsiasi tipo di esperienza VR (dal “semplice” video a 360° ai videogiochi in real time) pone su una linea sottile il rapporto tra incorporazione e disincorporazione dell’utente e della sua sensibilità percettiva. Il punto di vista iper-soggettivo (sottolineato materialmente dal restringimento del campo visivo imposto anche dal più prestante dei visori) contribuisce al contempo all’impressione di presenza a una condizione di testimonianza onirica; l’assenza visiva del proprio corpo (solo in parte rimediata dalla simulazione digitale delle mani e di alcuni gesti attraverso i controlli tattili) suscita una dissonanza cognitiva e corporea; il calarsi in un avatar che ci rappresenta nel mondo virtuale è percepito come un corpo estraneo. La VR è una tecnologia che dobbiamo ancora realmente assimilare nelle nostre consuetudini percettive: il corpo sembra ancora rigettarla e resisterle. È persino possibile che la VR sia un’invenzione senza futuro…
Le opere in mostra quest’anno non confutano quelle impressioni, ma è sempre più evidente che la VR sta finalmente guadagnando una certa autoconsapevolezza, sino a utilizzare i suoi stessi insuperabili limiti a proprio vantaggio espressivo. Ecco allora che la discrepanza tra visione e propriocezione che genera la chinetosi è volutamente ricercata in alcune opere, come in Gravidade VR (Fabito Rychter, Amir Admoni, Brasile/Perù), in cui lo spettatore precipita quasi all’infinito assieme ai due personaggi. Sorprendentemente, dopo pochi minuti si smette di afferrare e lanciare gli oggetti che cadono nel vuoto e si tende semplicemente a porsi in ascolto della storia. Ancora in piedi, ma da fermi, in Here (Lysander Ashto, UK) si osservano da puri testimoni, ma con un forte senso di presenza, i mutamenti nel tempo della medesima abitazione, seguendo in diverse epoche le vicende dei suoi occupanti. Per muovere almeno le braccia si può giocare a Down The Rabbit (Ryan Bednar, Svezia), una sorta di prequel di Alice nel paese delle meraviglie in cui si esplorano interattivamente spazi volutamente rimpiccioliti (ma ridimensionabili…).
Cambio visore e mi siedo sulle poltrone cinetiche delegando il movimento della testa e del corpo al joystick che muove la poltrona su tre assi. In 1st Step – From Earth to Moon (Jörg Courtial, Maria Courtial, Germania), il decollo dell’Apollo 11 è più emozionante se si inclina lo schienale verso l’alto e ci si allinea il più possibile agli astronauti diventando il quarto membro dell’equipaggio; e il panorama lunare è ancora più magnificamente desolante se lo si esplora sfericamente ruotando su sé stessi. L’allineamento al personaggio è fisico ma anche emotivo se, come in 4 Feet High (Maria Belen Poncio, Rosario Perazolo Masjoan, Damian Turkieh, Argentina/Francia), la protagonista è costretta su una sedia a rotelle. L’assorbimento contemplativo è ancora più profondo se si osserva a tutto campo l’infinita atomizzazione del tetraedro metallico di Recoding Pandora (François Vautier, Francia).
Interessante, in negativo, che lo spostamento fisico nello spazio virtuale sia generalmente scoraggiato e realizzato solo tramite i pulsanti dei touch controller o sostituito dal teletrasporto. Se dal punto di vista linguistico tutti i generi e i formati sembrano progressivamente emanciparsi dagli esperimenti delle origini, sul piano dello storytelling i difetti sono ancora evidenti, come nel graficamente eccezionale Baba Yaga (Eric Darnell, Mathias Chelebourg, USA), in ci però gli interventi dello spettatore, ridotti all’esecuzione di alcune semplici funzioni, non sono davvero determinanti nello sviluppo della narrazione. Al contrario (quasi all’eccesso), la complessità narrativa e la possibilità dello spettatore di muovervisi liberamente all’interno e di partecipare interattivamente alle direzioni (e alle deviazioni) del racconto, come in Killing a Superstar (Fan Fan, Cina), sono tratti narratologici che stanno di anno in anno migliorando la propria definizione. Ma in generale è come se la VR stesse ancora vivendo una fase aurorale, in cui si sperimentano strade e possibilità diverse ma a prevalere è la fascinazione per il mezzo tecnologico più che per i contenuti veicolati.
Dopo tre ore ininterrotte di VR viene il momento di togliere il visore. Ed ecco, si verifica il fenomeno più straniante e sorprendente. Mi accorgo di sentirmi assolutamente immerso nello spazio circostante, forse persino più di quanto non mi sentissi fino a pochi istanti prima. Si tratta delle navate dell’ex chiesa del Carmine a Piacenza, di recente ristrutturata, arredata in chiave moderna e destinata ad ospitare il Laboratorio Aperto nell’ambito di un progetto di valorizzazione culturale smart della città. Uno spazio fisico, reale, assolutamente immersivo. Mi ritrovo in un ambiente pervaso di luce candida, tra pareti di vetro su cui i raggi solari formano sagome ologrammatiche; grandi anelli sospesi a mezz’aria…