In genere quando un attore o un’attrice comici o drammatici abituati ad “autogestirsi” – nel senso che il bravo artigiano di turno che li dirige lascia loro la libertà espressiva necessaria e assecondano un fisiologico bisogno di non farsi condizionare più di tanto – decide o comunque accetta di consegnarsi a un autore prestigioso e identificabile, si crea una comprensibile grande attesa nella critica e nel pubblico per vedere se la nuova esperienza innesca un “salto di qualità” o fa rimpiangere le prove autoctone precedenti. Nel caso di Massimo Troisi questo cambio di gestione non c’è stato o almeno, a parte l’irrilevante peso che hanno avuto Benigni in co-regia e Michael Radford per Il Postino (1994), i tre film interpretati con la regia di Ettore Scola non vanno oltre la consacrazione da parte di un maestro che non a caso ha risolto la problematica gestione solista affiancandogli Marcello Mastroianni o facendogli fare un Pulcinella che non toglie e non mette.

Nell’ambito di questo discorso non si può non pensare all’analogia con Totò che, come si sa, à stato diretto da Pasolini. E proprio il grande regista e intellettuale alimenta con un po’ di fantasia una suggestiva ipotesi. Pasolini e Troisi non si sono mai incontrati e non poteva essere altrimenti visto che l’exploit di Ricomincio da tre avvenne nel 1981, sei anni dopo la scomparsa del grande intellettuale. Però hanno condiviso il luogo della morte. Naturalmente si tratta di una coincidenza, di un caso che si presta però ad essere utilizzato come pretesto per ricamare con la fantasia una premonizione a posteriori.

Ci piace insomma immaginare che se Pasolini avesse conosciuto Massimo e soprattutto prima il suo teatro e la televisione a partire dal 1977 e poi il suo cinema, poteva essere folgorato dalle sue caratteristiche espressive e linguistiche, al punto da cucirgli addosso un progetto cinematografico, ci piace immaginare che dall’incontro di due filosofie quella “alta” di un intellettuale militante e quella naïf e spontanea e inconsapevole dell’attore-regista poteva nascere un originale e deflagrante cortocircuito.

Come già era accaduto per Totò diretto da Pasolini in Uccellacci e uccellini (1966) e in due episodi controllando la sua esuberanza verbale e traghettando la sua “filosofia” del quotidiano verso l’apologo e la metafora, anche Troisi avrebbe trovato nella profondità, nell’eclettismo, nella spiazzante vocazione trasgressiva dello scrittore-poeta-regista una collocazione e una forma che però non riusciamo ad immaginare, l’impareggiabile repertorio mimico-linguistico del comico di San Giorgio a Cremano avrebbe fatto i conti con il pensiero pasoliniano. Resta un’ipotesi ma di una cosa siamo certi: qualunque potesse essere il risultato artistico dell’insolito binomio ci sarebbe stato un’inevitabile snaturamento della koinè troisiana, una fatale subordinazione alla poetica alta pasoliniana.

Insomma certi incontri artistici importanti che ci sono stati nel percorso di Troisi e le suggestive visionarie proiezioni, alimentano la convinzione che Massimo era destinato ad essere e restare un grande attore-autore-regista di se stesso. E questo non per uno scetticismo che scaturisce da un affetto e un’empatia con il suo gigantesco personaggio, dal rifiuto di immaginare che Massimo è stato e poteva essere qualcosa di diverso, ma per una convinzione teorica. Non è tanto pretestuoso allargare ulteriormente l’orizzonte della comicità di Troisi e soprattutto della sua unica forza comunicativa gestuale-corporea-verbale napoletana-dialettale scomodando modelli alti.

Vien di pensare, ad esempio, al decostruzionismo di Derrida per come Massimo inconsapevolmente e involontariamente nelle sue semplici quanto profonde e irresistibili riflessioni “decostruisce” la filosofia analitica occidentale e alla variante strutturalista del rapporto tra il pensiero e il linguaggio, del linguaggio del pensiero e della psicolinguistica di matrice sovietica. Stiamo parlando però del Troisi tutt’uno, quello per il quale nell’immaginario il regista e l’attore sono inscindibili, sono due componenti per cui ci si può chiedere: è più regista-attore o attore-regista? E ancora nell’ottica del Troisi regista di se stesso, che peso ha la maschera in quanto tale nel veicolare il suo pensiero?

Non è un caso che per i più illustri modelli ai quali l’attore napoletano viene accostato per evidenti analogie, la questione si ripropone in maniera abbastanza apodittica e paradigmatica. Ed è curioso che le maschere più citate appartengono al periodo del muto, gli inarrivabili Chaplin e Keaton che facevano proprio dell’assenza della parola la loro forza comunicativa ed espressiva rivolta per l’uno alla “denuncia” sociale, per l’altro a un’epica del quotidiano che si scontrava con il Potere per il solo fatto di esistere e al periodo del sonoro degli anni cinquanta con Eduardo De Filippo e Totò che facevano della parola una tagliente arma imprescindibile, sia pure su versanti (drammatico e comico) ben diversi.

Naturalmente è con questi due gioco-forza che il paragone esibisce immediatamente analogie e differenze non solo e non tanto per una napoletanità linguistico-filosofica condivisa quanto per certe modalità espressive che fanno venire il sospetto che Massimo ha studiato e metabolizzato Eduardo e Totò, sospetto però fugato dall’unicità e l’originalità di un attore che ha spiazzato tutti, dall’impatto che ha avuto sul mondo dello spettacolo e della comunicazione soprattutto per la capacità di imporsi come un alieno, come un artista che non somigliava a niente di ciò che lo aveva preceduto.

Quello che rende il cinema di Troisi qualcosa di unico e non replicabile è proprio il fatto di somigliare a Eduardo per certe pause e certe sfumature espressive fatte di sguardi significanti, di movimenti facciali e corporei che alludono ad altro e a Totò per una esuberanza verbale, per costruzioni grammaticali e libertà  sintattiche disarmanti, ma per andare oltre i due grandi attori. Il suo oltre sta nell’inserirsi – ovviamente in maniera inconsapevole e involontaria – in alcune “alte” riflessioni teoriche di matrice semiologica e (post)strutturalista. In questi casi si è costretti a scomodare la grande e alta questione teorica affrontata da Christian Metz, il padre della semiologia del cinema: il cinema è una lingua o un linguaggio? Naturalmente dalla fine degli anni sessanta quando scriveva lo studioso francese l’evoluzione della teoria cinematografica ha spazzato via qualunque dubbio sull’essenza del cinema come linguaggio cinematografico.

Metz partendo dalla semiologia linguistica di Saussure mise nel suo fondamentale testo dei punti fermi sulla semiologia del cinema. Eppure nello spettatore medio e nell’immaginario collettivo si è fatta strada nel tempo – complice un approccio pressapochista alla materia – la percezione che il cinema di Troisi è una lingua, la convinzione che il suo modo di parlare-recitare ha creato una vera e propria “lingua cinematografica”. Così come riandando con la memoria a un altro testo teorico fondamentale quel Logica del senso di Deleuze che fa un’acuta ricognizione tra i paradossi relativi al rapporto tra il linguaggio e l’inconscio per sollevare il problema che il pensiero non è un atto semplice, chiaro e logico ma evidenzia il non senso dell’inconscio. E anche qui il cinema di Troisi ci può entrare a costo di forzare le sue reali implicazioni artistiche e filosofiche. Si, perché a pensarci bene tutto il suo cinema è impregnato di paradossi magari nascosti ai più che colgono superficialmente la divertente immediatezza comunicativa.

Sono appunto paradossi elaborati mentalmente e messi in una forma tale da celare il non senso. E Deleuze nel suo testo riprende anche un altro importante scritto di Klossowski sul corpo-linguaggio. Il padre del post-strutturalismo ipotizza un parallelismo tra il corpo e il linguaggio, una riflessione dell’uno nell’altro, un parallelismo tra vedere e parlare. Se il linguaggio imita i corpi e se i corpi imitano il linguaggio, Klossowski pensa che la parola è la sola attività corrispondente alla passività della vista, la parola è la nostra condotta attiva nei confronti dei riflessi, delle eco e dei doppi, sia per raccoglierli, sia per suscitarli. Se la vista è perversa, lo è anche la parola. E la dissoluzione dell’io cessa di essere una determinazione patologica, per divenire la più alta potenza, ricca in promesse positive e salutari. L’io è “dissoluto” soltanto in quanto è dissolto: non soltanto l’io che è guardato, che perde la sua identità sotto lo sguardo, ma quello che guarda e che si mette anche fuori di sé che si moltiplica nel suo sguardo.

È chiaro che questa impalcatura teorica può risultare a molti eccessiva, estrema, pretestuosa, intellettualistica tesa quasi a nobilitare materia “bassa” ma tant’è ci troviamo di fronte a un fenomeno talmente originale e atipico che il ricorso a strumenti analitici più sofisticati e un approccio multidisciplinare possono aiutare a riformulare in parte il percorso artistico di Massimo tanto complesso quanto “semplice” all’apparenza. Qualunque tentativo di separare il suo universo dello spettacolo (cinema, teatro, tv) dal suo mondo reale, l’artista dall’uomo è destinato inevitabilmente a scontrarsi con il rischio di una normalizzazione, di arruolarlo nella categoria dei tanti registi-attori e attori-registi pena lo snaturamento della sua peculiarità espressiva.

Non ha molta importanza alla fine quanto sia stato regista di se stesso o quanto quelli che lo hanno diretto hanno avuto un problema di gestione. Quello che conta è la sua recitazione-non recitazione quale veicolo di pensiero che fa sovrapporre e quasi coincidere significante e significato, è la sua interpretazione di se stesso dentro e fuori campo fatta appunto di corpo e linguaggio, di parola e sguardo/visione, di radicamento di senso nel reale e al tempo stesso di allusione di non senso a qualcosa di misterioso. Entrare nelle pieghe nascoste della solare recitazione troisiana significa proprio scoprire l’aspetto più inafferrabile e indecifrabile inversamente proporzionale a un’irresistibile e contagiosa comicità visiva e verbale.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2014.
M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003.
C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1980.
Troisi 70. Il Massimo dell’arte, Repubblica-Guida, Napoli 2023.

Massimo Troisi, San Giorgio a Cremano 1953 – Roma 1994.

Share