Osservando dall’alto la produzione alquanto ridotta di cinema di finzione di Vittorio De Seta, composta da soli quattro lungometraggi, sembra esservi una sorta di linea immaginaria che la separa nettamente in due parti: da un lato la componente più introspettiva, con Un uomo a metà (1966) e L’invitata (1970), dall’altro quella più aperta al sociale e segnata da un tono quasi documentaristico, Banditi a Orgosolo (1961) e Lettere dal Sahara (2006). In realtà questa cesura, a osservare con attenzione, è meno netta di quanto appaia a prima vista ed è limitata ad aspetti formali, più che alle storie narrate, e quindi allo stile scelto dall’autore per mettere in scena determinate vicende. Difficile, per il suo carattere prevalentemente documentaristico, considerare come film di finzione, sia nell’edizione in quattro puntate per la televisione, sia nella versione ridotta per il cinema, Diario di un maestro (1973), ancorché ispirato al libro autobiografico Un anno a Pietralata di Albino Bernardini.
D’altronde, il carattere complessivo dell’opera di De Seta è ben colto, seppur indirettamente, da Vincenzo Consolo quando, spostando l’attenzione dall’asse meramente documentaristico dei primi lavori verso una dimensione tragica, afferma che in questi documentari l’autore «dà il simbolo di una condizione umana, il senso di un’epica dolorosa, la misura di una grande poesia» (Consolo 1995, p. 28). In fondo il tema dei film di finzione a carattere intimistico non è del tutto assente negli altri due lavori del regista, e tutti sono in buona parte sviluppati intorno a problematiche dalla forte componente esistenziale – il senso del proprio essere in rapporto a un mondo con cui non si è in sintonia – e si reggono su un conflitto: con il potere, con la società, interno alla coppia, interpersonale, sociale.
Il protagonista di Banditi a Orgosolo in un attimo, per degli eventi indipendenti dalla sua volontà, si trova trasformato in bandito. La condizione del pastore di quella particolare realtà contiene in sé la componente del bandito, quasi un elemento latente, e il fato può farla esplodere da un momento all’altro. Come nella tragedia greca, i pastori della Barbagia sono portatori di una colpa connaturata, quella di essere nati pastori in un mondo alieno alla modernità e in perenne conflitto con la legge di uno Stato repressivo. Per costruire questa tragedia De Seta lavora come un antropologo, si appropria del metodo malinowskiano dell’osservazione partecipante e si immerge nella comunità orgolese per circa due anni finché, perfettamente inserito e padrone dello spirito del luogo, può usare i materiali reali per raccontare una storia senza tempo, priva di riferimenti ai fatti storici e spoglia di riflessione sociologica.
Da questa prospettiva il salto con il film successivo è meno netto e non stupisce che il protagonista si chiami proprio Michele, come quello della precedente pellicola. Qui il personaggio principale è un intellettuale in crisi, uno scrittore che ha perso la capacità di scrivere e i contatti con il mondo che lo circonda e si trova a ripensare se stesso in una sorta di seduta psicoanalitica interiore, quasi un percorso di autoanalisi. Ed è forse questo inatteso carattere psicanalitico e visionario che suggerisce anche una spiegazione del perché non sia stato felice l’impatto di Un uomo a metà con la critica spiazzata da un film stilisticamente molto diverso da Banditi a Orgosolo (Costa 1995, pp. 169-170). Le immagini mentali di una famiglia in cui non è integrato – una madre autoritaria e fredda, un fratello di successo, un padre assente – e i ricordi di amori conflittuali e irrisolti, si susseguono attraverso un montaggio lontano dalla sintassi ordinaria e prendono forma con una fotografia dai punti di vista eccentrici, debitori del cinema d’avanguardia, in cui il profilmico è spesso sfumato e indefinito a esprimere anche visivamente la condizione interiore di una personalità sofferente. L’angoscia del personaggio è rafforzata dalla musica e dal sonoro, ma anche da uno sviluppo narrativo confuso e non lineare.
Se il Michele pastore vaga per il Supramonte in una fuga disperata da un nemico evidente – lo Stato con i suoi carabinieri – e da un altro latente – il bandito interno che può emergere da un momento all’altro –, il Michele intellettuale del secondo lungometraggio rovista nella propria mente ricordi e stati d’animo che gli impediscono di essere in sintonia col mondo nella speranza, vana, di poter andare oltre. Il viaggio interiore di questo secondo Michele è l’altra faccia di quello concreto e materiale compiuto dal Michele pastore/bandito sui monti della Barbagia in Sardegna.
Anche il terzo film, L’invitata, si sviluppa come un racconto di viaggio, questa volta però è un road movie classico in cui il tragitto, come da modello, è occasione per scoprire se stessi e maturare grazie agli incontri, reali e/o simbolici, fatti durante il percorso. Sviluppato, a differenza dei precedenti e del successivo, a partire da un soggetto non proprio, ma di Tonino Guerra e Lucile Laks, il film ha uno sviluppo lineare con minime incursioni nel ricordo di flashback indefiniti. Anne scappa da casa abbandonando il marito quando lui, con molta naturalezza, vorrebbe costruire una relazione di coppia aperta. Il lungo viaggio in auto accanto all’architetto per cui lavora la porta ad attraversare dal nord al sud la Francia vivendo situazioni nuove e per lei particolari. Durante il tragitto il rapporto fra i due, segnato dal carattere sbrigativo e distaccato dell’uomo e dall’atteggiamento introverso di Anne, lentamente lascia trasparire un qualche interesse reciproco senza andare, però, oltre pochi gesti affettuosi. Il riconoscere che con il compagno di viaggio ci può essere comprensione e coinvolgimento sentimentale rappresenta, per entrambi i personaggi, il superamento di una condizione interiore di chiusura e il riconoscimento della propria sfera sentimentale. Una quasi maturità attraverso la quale si potrà riconsiderare il rapporto con il proprio partner in un finale aperto. Anche qui, come in Un uomo a metà, il tema dell’identità personale e del rapporto con gli altri è centrale per quanto forse l’ancoraggio a un sistema produttivo tradizionale non permettono al regista di far emergere del tutto la propria personalità.
Dopo L’invitata il lavoro di De Seta si dirada e si focalizza sul documentario e il reportage d’inchiesta principalmente per la televisione. Per ritrovare un nuovo lungometraggio di finzione, e chiudere il capitolo, bisogna attendere ben trentacinque anni quando nel 2006 viene presentato Lettere dal Sahara, film che riporta lo stile della finzione ai modelli più noti di Vittorio De Seta, ossia al cinema del reale e di impegno civile. Anche in questo caso il racconto mantiene un legame col film di viaggio e segue il protagonista, Assane, in un percorso dall’Africa alla Sicilia e via a nord fino a Torino in un tragitto a tappe che rappresentano momenti di evoluzione della sua condizione di migrante da clandestino a regolare. Uno status, questo, che non gli permette comunque di superare il disagio interiore e lo spinge a rientrare al suo Paese. L’intenzione di De Seta non è quella di rappresentare un conflitto irrisolvibile, quanto piuttosto, come esplicita la didascalia in apertura, di evidenziare come anche in una tragedia come quella rappresentata dalle migrazioni dai paesi poveri verso quelli ricchi possano esserci momenti di dialogo e speranza. Ed è forse questa ambizione a portare a soluzioni narrative talvolta didascaliche che sacrificano a tratti la scioltezza del racconto.
La scelta di incentrare il film sempre sul protagonista riporta De Seta a quella “rivoluzione copernicana” teorizzata in Banditi a Orgosolo, quando, intuendo la difficoltà degli attori-pastori di rispettare la centralità della macchina da presa modifica le gerarchie interne al set e subordina tutto alla spontaneità degli interpreti. Ugualmente, la decisione di lavorare con mezzi agili tipici del documentario cerca di riproporre il metodo di lavoro indipendente che aveva inaugurato con grande successo nel film barbaricino pur senza le difficoltà incontrate in questa occasione. L’uscita della pellicola e la sua presentazione al festival di Venezia nel 2006 salutano il ritorno sulla scena cinematografica di un regista non riconciliato. Ma forse, nel suo rifondare un’originale idea di cinema Lettere dal Sahara rappresenta un nuovo punto di inizio (Morreale 2006, p. 49) che non avrà possibilità di svilupparsi.
Riferimenti bibliografici
V. Consolo, Il metodo verghiano in De Seta, in M. Rais, a cura di, Il cinema di Vittorio De Seta, Maimone, Catania 1995.
A. Costa, Il terzo escluso, in M. Rais, a cura di, Il cinema di Vittorio De Seta, cit.
E. Morreale, Lezioni di metodo. Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta, in “Cineforum”, n. 458, 2006.
* L’immagine di anteprima dell’articolo è presa da Un uomo a metà (1966) di Vittorio De Seta.