L’intera struttura di If I had legs, I’d kick you di Mary Bronstein poggia su un montaggio nevrotico: una perfetta restituzione, sul piano stilistico, delle emozioni che agitano la protagonista, Linda (Rose Byrne), una psicanalista madre di una bambina affetta da una misteriosa malattia la cui reale natura è solo suggerita, ma mai realmente approfondita. Questo perché il vero fulcro dell’opera, il motivo attorno a cui il film ruota, sono le paure, i traumi irrisolti e nascosti, di Linda, legati alla sua maternità complessa e ambivalente. Il risultato è la rappresentazione di «one of the darkest, least explored sides of mothering: when the typically celebrated qualities of care and protection just don’t seem to work anymore».

Per raggiungere tale scopo, Bronstein si avvale di inquadrature mobili e nervose, spesso realizzate con la camera a mano, al fine di acutizzarne ulteriormente il tremore. La macchina da presa frammenta gli spazi e i corpi: ogni dettaglio inquadrato viene sezionato chirurgicamente e reciso dal tutto di cui è parte integrante pur essendo, al contempo, isolabile in quanto immerso in una bolla di panico e caos. In particolare, Bronstein insiste sui primi piani del volto di Linda, scelta funzionale a trasmettere ogni stato d’animo, anche il più intenso, mediante le micro-espressioni del volto della donna. A proposito del primo piano, Balázs afferma che «can lift a character out of the heart of a greatest crowd and show how solitary it is in reality and what it feels in this crowded solitude» (1970, p. 63). E, in effetti, ciò che ci restituiscono i primi piani di Linda è proprio il suo profondo senso di solitudine, la sua incapacità di tenere le fila della sua vita, che pare sgretolarsi tra le sue mani senza che lei riesca a fare nulla per impedirlo e senza ricevere alcun aiuto dalle persone che la circondano, a cominciare dal marito, la cui fugace apparizione si colloca solo alla fine del film.

Al fine di concentrare tutta l’attenzione dello spettatore sulla figura di Linda e sulla sua esperienza della maternità, Bronstein lascia per quasi tutta la durata del film la figura della figlia di Linda in fuori campo. La presenza costante della bambina viene riaffermata con forza quasi violenta dalla sua voce stridula e capricciosa, che preme sul bordo dell’inquadratura e schiaccia la già fragile psiche di Linda, ma si configura come pura sostanza sonora, la cui fonte resta off-screen.

Tutto ciò rende evidente il fatto che l’intenzione primaria di Bronstein sia quella di elaborare una riflessione critica sull’ideale di maternità per decenni esaltato dalla cultura occidentale, che vede le donne immolarsi sull’altare della cura parentale, trascurando la propria soggettività femminile e tutte quelle parti di sé incompatibili con l’immagine della «maternità come identità unica» (Rich 2024, p. 44). Nello specifico, Bronstein esplora l’altro lato della medaglia, dando voce alle ansie, alle angosce e ai moti di rabbia che ribollono nel profondo dell’inconscio e che sono solitamente repressi dalla società in quanto inconciliabili con l’immagine “perfetta” del materno.

Linda viene frequentemente rimproverata per aver lasciato sola la figlia per concedersi qualche ora di sana ed egoistica solitudine. Rimproveri che provengono sempre da figure maschili. In diversi casi, infatti, è il marito, la cui presenza/assenza aleggia sul nucleo familiare a redarguire Linda, con la sua voce che discende dall’alto del proprio status di padre-lavoratore, totalmente incurante della condizione di Linda di madre-lavoratrice. In molti casi, tuttavia, appare evidente che i rimproveri siano auto-inflitti, la donna sente «come se un filo si tendesse tra [loro] per rompersi, lasciando nel bambino un senso inconsolabile di abbandono, se [si] fosse inoltrata – e non fisicamente ma psicologicamente – in un territorio al di fuori del [loro] strettamente delimitato stare insieme» (ibidem).   

Linda, dunque, sperimenta una contraddizione interiore, la quale la conduce sull’orlo di una crisi di nervi. Percepisce la necessità di fermarsi, ma allo stesso tempo prova anche un inesorabile senso di colpa per averlo anche solo pensato. Come sottolinea sempre Rich:

La donna con figli è preda di sentimenti molto più complessi e sovversivi. Amore e rabbia possono coesistere; […] l’angoscia per tutto ciò che non possiamo fare per i nostri figli in una società così inadeguata alle esigenze umane si traduce in senso di colpa e autoaccusa. Questa «responsabilità senza potere» come è stata definita da un gruppo femminista è un peso ancor più gravoso del mantenere i figli. […] la madre che «trascura» i figli vede messo in questione tutto il suo essere, il suo status di donna (ivi, p. 76-77)

Bronstein filtra questo processo interiore mediante lo sguardo di Linda. La prospettiva assunta è quella della protagonista, di cui lo spettatore sperimenta e attraversa i tumulti interiori: il desiderio di evasione e il dolore per la malattia della figlia, probabilmente affetta da un disturbo del comportamento alimentare, di cui si sente responsabile, come esplicitamente dichiara durante l’assemblea con le altre madri che hanno in cura le figlie presso la stessa struttura. Ancora una volta sono le madri coloro a cui è demandata la cura dei figli e a cui sono ricondotte tutte le loro mancanze e sofferenze.   

L’immagine della maternità ambivalente è ulteriormente approfondita mediante il personaggio di Caroline, la paziente di Linda, la quale vive in maniera ossessiva il proprio ruolo di cura e cerca nella terapeuta un aiuto che, in quel momento, non può darle perché «Linda is in that state-of-mind where she’s missing everything», persino il fatto che la sua paziente sia una sorta di suo riflesso allo specchio. Caroline, ad un certo punto, abbandona suo figlio Riley nello studio di Linda perché, come rivela in una e-mail, teme di potergli fare del male. Al messaggio di posta elettronica Caroline allega l’intervista di una donna accusata di aver ucciso i propri figli annegandoli nella vasca da bagno. Il riferimento è emblematico perché, in questo modo, Bronstein cerca di decostruire la figura idillica della madre devota incondizionatamente ai propri figli mostrando sotto una luce diversa l’immagine dell’infanticida, che la società aborre ma con cui «tutte le madri […] erano in grado di identificarsi […]», in quanto tutte avevano sperimentato «momenti di furia omicida rivolta contro i [proprio] figli, perché non c’era nulla e nessuno su cui sfogarla» (ivi, p. 288).

La già precaria condizione di Linda viene aggravata dall’aprirsi di una voragine nel tetto, evento che la costringe a trasferirsi momentaneamente in un motel con la figlia. Se, come sostiene Jung, la casa è simbolo dell’Io e il soffitto immagine della dimensione cosciente del sé, allora il buco sul soffitto è ipostasi della frattura interiore, della sofferenza psicologica che Linda sta attraversando. Ma la voragine sul soffitto funge anche da correlativo della ferita materna e si espande quanto più il rapporto di Linda con la maternità si complica e si stratifica. Tale idea sembra essere confortata anche dalla sovrapposizione che la regia di Bronstein suggerisce tra la frattura sul corpo della casa e la ferita sul corpo della bambina, provocata dal macchinario utilizzato per alimentarla. Entrambe sono voragini destinate a risanarsi con il tempo, come sottolinea la dottoressa per rassicurare Linda. Solo quando la madre trova la forza di strappare il “cordone ombelicale”, che lega la bambina a lei e alla macchina, il buco sul soffitto viene riparato e Linda riesce ad affrontare a viso aperto il proprio trauma, riuscendo, finalmente, a guardare in viso la figlia. 

Riferimenti bibliografici
B. Balázs, Theory of the film. Character and growth of a new art, Dover Publications, New York 1970.
C.G. Jung, Simboli e interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
A. Rich, Nato di donna. La maternità come esperienza e istituzione, Milano, Mondadori 2024. 

If I Had Legs I’d Kick You. Regia: Mary Bronstein; sceneggiatura: Mary Bronstein; fotografia: Christopher Messina; montaggio: Lucian Johnson; interpreti: Rose Byrne, A$AP Rocky, Conan O’Brien, Danielle Macdonald, Ivy Wolk; produzione: Fat City, A24, Bronxburgh; origine: Stati Uniti d’America; durata: 113′; anno: 2025.

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