Le cri du coeur (1994)

In uno dei film più conosciuti di Idrissa Ouédraogo, Le cri du coeur (1994), il giovane protagonista, Moctar, bambino burkinabé alle prese con lo smarrimento emotivo e psicologico causato dall’improvviso trasferimento a Lione della sua famiglia, descrive con queste parole l’Africa al suo cuginetto cresciuto in Francia: “Quando uno guarda l’orizzonte, vede più lontano”. Secondo il critico francese Olivier Barlet (2018), queste parole rappresentano una metafora perfetta della cinematografia di Idrissa Ouédraogo, una cinematografia che compie lo sforzo permanente di andare oltre le contraddizioni del presente africano e della sua rappresentazione, di guardare al di là della tensione irrisolvibile fra passato precoloniale e dominazione europea, regimi postcoloniali e modernità all’occidentale, per cercare nuove risposte nell’intimo dei personaggi e nella profondità dei paesaggi di film fatti per interrogare lo spettatore.

Ouédraogo è stato uno dei cineasti africani più influenti della sua generazione. I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti internazionali prestigiosi come il Premio della Critica Internazionale (FIPRESCI) a Cannes per Yaaba (1989), il Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes e l’Etalon d’Or de Yennenga del festival del cinema di Ouagadougou (FESPACO) per Tilaï (1990), l’Orso d’Argento della Berlinale e il “Tanit” d’Argento delle Journée Cinématographique di Cartagine per Samba Traoré (1992). La sua biografia e la sua opera disegnano in qualche modo un ponte fra la generazione dei padri del cinema africano (Sembène Ousmane, Gadalla Gubara, Med Hondo, Oumarou Ganda e altri) e quella dei cineasti contemporanei, divisi fra il cinema d’autore di un Abderrahmane Sissako, le sperimentazioni estetiche di un Jean-Pierre Bekolo e il crescente impeto commerciale di un’industria come la Nollywood nigeriana.

Segnato dal breve periodo di formazione cinematografica passato in Unione Sovietica, fra Mosca e Kiev (che ha preceduto un più lungo soggiorno di studi presso la scuola di cinema IDHEC, oggi FEMIS, a Parigi) e dall’atmosfera politica di un paese, il Burkina Faso, che negli anni ’80 ha visto l’affermarsi di una delle rivoluzioni più radicali e influenti del continente, quella guidata dal capitano Thomas Sankara, Idrissa Ouédraogo ha sviluppato nei primi anni di carriera uno stile caratterizzato da un forte realismo sociale e da un’attenzione quasi etnografica per i dettagli materiali e coreografici della vita quotidiana dei contadini dei villaggi dell’entroterra burkinabé, paesaggio nel quale ha vissuto la propria infanzia. Nei suoi primissimi cortometraggi e film documentari Poko (1981), Les Ecuelles (1983), Ouagadougou, Ouaga deux roues (1984) e Issa le tisserand (1984) Ouédraogo documenta la realtà del suo ambiente senza quasi intervenire, in una danza di immagini che si avvicina ai personaggi senza volerne svelare il mistero attraverso l’aggiunta di una narrazione extra-diagetica, al punto da produrre, secondo alcuni critici, documenti dal ricco valore etnografico e antropologico (Pfaff, 1992).

Al tempo stesso, inaugurando un’innovazione fondamentale rispetto al cinema dei suoi predecessori africani, Ouédraogo si avvicina alla rappresentazione del mondo rurale con uno sguardo anti-ideologico, che non vede in esso le tracce di un universo culturale precoloniale mitizzato, né le conseguenze inevitabili di una struttura socio-economica determinata dal dilagare dell’imperialismo occidentale.

Al contrario, la classe contadina è vista attraverso il prisma degli individui che la compongono, figure capaci di prendere in mano il proprio destino, come nel primo lungometraggio di Ouédraogo, Yam Daabo (1986), nel quale una famiglia di contadini messa a dura prova dall’incombere di una violenta siccità, rifiuta di restare passivamente ad attendere l’arrivo degli aiuti internazionali e si mette in cammino verso sud, verso l’Oceano, nel tentativo di migrare per costruirsi un nuovo avvenire autonomo e autosufficiente altrove. Proprio quest’atteggiamento, in netto contrasto con il didatticismo di predecessori come Sembène Ousmane e Souleymane Cissé, costò a Ouédraogo le aspre critiche di alcuni dei più celebri intellettuali e critici cinematografici africani del suo tempo, come il maliano Manthia Diawara e il nigeriano Frank Ukadike, che qualificarono il suo secondo lungometraggio, Yaaba (1989), come film «elitista e individualista» (Ukadike 1994, p. 289) incapace di far altro che trapiantare maldestramente in contesto africano «una specie di liberalismo francese» difficilmente conciliabile con l’universo morale del contesto rurale africano (Diawara 1992, p. 164). La posizione intransigente di questi critici, che Alexie Tcheuyap ha comparato a una forma di «moralismo autoritario» (Tcheuyap 2011, p. 12), sembra inadatta a riconoscere il valore dell’originalità del cinema di Ouédraogo, che:

postula un certo universalismo degli affetti per poi usarlo come veicolo attraverso il quale interrogare le strutture esistenti di dominio (patriarcato, genere, neocolonialismo, gerontocrazia, ecc.). Invece di affrontare queste strutture attraverso la retorica dei discorsi rivoluzionari dominanti, accede ad esse attraverso il prisma della politica dell’intimità ed esplora ciò che una tale proposta può offrire [per immaginare] un nuovo modo di vivere la vita e la cultura (Sanogo, 2018).

 

In effetti, nei tre lungometraggi che lo hanno reso internazionalmente celebre, Yaaba, Tilaï e Samba Traoré, Ouédraogo si sofferma su drammi legati alla complessa tensione fra equilibri sociali tradizionali e istanze modernizzatrici di trasformazione, fra imperativi morali collettivi e aspirazioni individuali, senza mai offrire risposte nette, per concentrarsi invece sull’universo cangiante degli affetti. L’enfasi verso la dimensione intima dei personaggi si esprime attraverso scelte stilistiche precise, con il soffermarsi ravvicinato sui volti e le espressioni delicate di personaggi nella maggior parte dei casi presi dalla strada (in gran parte dei suoi film Ouédraogo ha usato attori non professionisti), intrecciati ad un’attenta coreografia di corpi e movimenti inseriti in paesaggi filmati nelle loro luci e (per certi versi anche) nei loro tempi naturali.

Dopo il grande successo degli anni ’90, Ouédraogo ha dovuto far fronte, come molti cineasti africani della sua generazione, alla sfida delle grandi trasformazioni tecnologiche, che in Africa sono avvenute parallelamente ad una radicale trasformazione delle strutture economiche di sostegno alla produzione. L’emergenza di industrie culturali di massa come Nollywood e l’aumento della diffusione delle televisioni satellitari straniere hanno spinto gli uffici della cooperazione culturale francese ed europea a dirottare le sempre più esigue risorse verso il sostegno a produzioni televisive locali e ad iniziative di distribuzione interne al continente. Ouédraogo, i cui film erano stati per la maggior parte co-prodotti dalla Francia, si è spinto dunque verso nuovi lidi, producendo video e serie televisive per il mercato locale, e facendosi così ponte, come sottolineato in precedenza, fra la generazione dei padri del cinema africano e quella delle nuove generazioni di produttori e registi che lavorano su progetti a basso costo e in digitale, ma sono indipendenti dalle imprevedibili decisioni dei finanziatori internazionali. Pochi anni fa, a un’intervistatore che gli chiedeva quale fosse la sua opinione di fronte a queste nuove generazioni, rispondeva: «Non conta che un film sia fatto in pellicola o in digitale. Ciò che conta è che lo si faccia, per controbilanciare l’invasione di immagini venute dall’estero» (Barlet 2018).

Negli ultimi anni di vita, la grande preoccupazione di Ouédraogo era quella della formazione culturale delle nuove generazioni, un’attività alla quale dedicava molto del suo tempo intervenendo regolarmente nella scuola di cinema creata a Ouagadougou dal suo amico regista Gaston Kaboré. Il fantasma di una nuova colonizzazione, questa volta esclusivamente giocata sul piano dell’immaginario e legata al dilagare in Africa dei nuovi media occidentli e di serie televisive indiane, latino americane e filippine, preoccupava profondamente Ouédraogo, che sognava di produrre un nuovo lungometraggio epico sulle gesta di un eroe della resistenza locale al colonialismo francese, Boukari Koutou. Come in molti hanno sottolineato negli omaggi che sono stati dedicati a Ouédraogo in questi giorni, se purtroppo non ha avuto il tempo di completare questo progetto, l’eredità del suo lavoro resterà per lungo tempo un’ispirazione fondamentale per i cineasti africani delle nuove generazioni.

Riferimenti bibliografici
O. Barlet, L’immense apport d’Idrissa Ouedraogo, “Africulture”, febbraio 2018.
M. Diawara, African Cinema: Politics and Culture, Indiana University Press, Bloomington 1992.
F. Pfaff, Africa from within: The films of Gaston Kaboré and Idrissa Ouedraogo as anthropological sources, in “Visual Anthropology Review” 6.1 (1990), pp. 50-59.
A. Sanogo, Idrissa Ouédraogo obituary: Burkinabe master who merged the political and the poetic, “Sight & Sound”, febbraio 2018.
A. Tcheuyap, Postnationalist African Cinema, Manchester University Press, Manchester, 2011.
F. Ukadike, Black African Cinema, University of California Press, Berkley 1994.

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