A Catello Palumbo (Toni Servillo), ex sindaco, ex preside, al ritorno in Sicilia nei primi anni Duemila dopo sei anni di carcere per associazione mafiosa, viene proposto dai servizi segreti di collaborare alla cattura di “Iddu” (“lui”), il boss Matteo Messina Denaro (Elio Germano), di cui Catello è amico e padrino di cresima.
Il tempo dei grandi patriarchi delle famiglie mafiose è profondamente mutato, e nuovi attori siedono ai tavoli decisionali. Messina Denaro mantiene la sua posizione di boss della malavita ereditata del padre, morto in latitanza in un letto d’ospedale allestito in una stalla, ma vive recluso in una casa nascosta da dove continua ad amministrare un impero criminale miliardario che non vede più, se non in un puzzle di una mappa della Sicilia, che completa man mano che il film avanza. In questa condizione di clausura il boss detta a Lucia Russo (Barbora Bobulova), la sua collaboratrice e padrona della casa, il testo dei suoi “pizzini”: lettere che, attraverso un complesso sistema di consegne nascoste, raggiungono il clan e la famiglia, firmati attraverso pseudonimi. La condizione di esistenza del boss nel mondo passa dunque attraverso gli oggetti documentali, atti iscritti che si traducono immediatamente in omicidi, ricatti, estorsioni, affari milionari, accordi con altre famiglie e potentati.
Catello Palumbo inizia così uno scambio epistolare con Messina Denaro cercando di sfruttarne il punto debole per indurlo a rivelare la sua posizione: da uomo di cultura, induce i servizi segreti a comprendere meglio il boss pensandolo come un nuovo Amleto, cogliendo in lui il bisogno di una figura che lo guidi come prima faceva il padre, che ha perso da poco.
Anche questa operazione di cattura non va a buon fine, come le altre che, anno dopo anno, continuano a fallire: qualcuno protegge il boss e dirotta le indagini dall’interno quanto basta per tenerlo d’occhio, per rimandarne l’arresto. L’obiettivo dei servizi, evidentemente, è quello di inserirsi nelle profondità più recondite della realtà complessa dei sistemi di potere criminale, per mantenere l’equilibrio in epoche di grandi cambiamenti sociali.
In questo film epistolare, l’individualità si manifesta nella firma (Ferraris 2009, p. 355): solo nell’ultima, decisiva lettera, in cui ha ormai scoperto il tradimento di Catello Palumbo, Messina Denaro, chiudendo la missiva apertamente con il suo nome e cognome, esprime la sua vera identità, la sua natura profonda e il ritorno al suo sistema valoriale basato sulla fedeltà alla famiglia, nonché la condanna a morte dell’ex preside ormai decisa.
La chiave per accedere al personaggio è il grottesco, che consente alla regia di gestire la sproporzione tra realtà e immaginazione. Pensiamo a quando il boss abbandona di colpo il suo nascondiglio per l’impulsiva decisione di incendiare la vigna del vicino di casa, colpevole di aver danneggiato il muro del minuscolo terrazzino, unico spazio all’aperto a cui Messina Denaro può accedere. Con gesti precisi intorno alle piante e alle taniche di benzina, il boss rivive l’euforia delle operazioni criminali della sua giovinezza e, come Amleto, riceve la visita del fantasma del padre, apparso per offrirgli aiuto e guida, a cui però il figlio risponde: “Sei morto in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio”. O ancora ricordiamo la scena in cui il boss, che non può completare il puzzle siciliano perché manca un tassello, fa scrivere a Lucia una lettera alla ditta produttrice per farselo spedire.
Questa cifra, però, non va intesa come una fuga dal realismo: i registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza dichiarano di voler restituire un grottesco esistente negli ambienti mafiosi ed in particolare nel mondo del boss, di cui studiano un profilo psicologico ben prima dell’arresto nel 2023, quando le istanze caratteriali erano ancora frutto di speculazione. L’episodio della lettera e del tassello mancante è realmente accaduto (il boss ha fatto spedire una lettera alla società Ravensburger) e denota una perdita di lucidità, tanto più grande quanto lo è la dimensione del potere esercitato, e una decadenza di quel modello mafioso che ha portato alla proliferazioni di parassiti che trattengono la società da ogni possibile redenzione. La colonna sonora originale di Colapesce richiama atmosfere da Sicilia antica, bloccata nel tempo e condannata a ripetere lo stesso destino.
Matteo Messina Denaro è l’ultimo dei padrini di mafia e Catello Palumbo il suo padrino di cresima, in un ribaltamento di ruoli e conseguente approdo in una zona grigia, sottolineata dalla fotografia di Luca Bigazzi (Il divo) che, ad eccezione del finale, non lascia mai in piena luce i volti dei personaggi.
Il film si allontana da gran parte della produzione italiana dedicata alla mafia con prodotti spesso dedicati a storie, individuali ed eroiche, di lotta e resistenza, oppure a questioni sentimentali nel caso siano protagoniste le donne dei clan (Renga 2013, p. 14), offrendo invece una rappresentazione problematica che non manca del “ridicolo”, che, come dice Catello Palumbo, “in Sicilia uccide molto più delle pallottole”.
Riferimenti bibliografici
M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari, 2009.
D. Renga, Unfinished Business. Screening the Italian Mafia in the New Millennium, University of Toronto Press, Toronto, 2013.
Iddu. L’ultimo padrino. Regia: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza; sceneggiatura: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Paola Freddi; musiche: Colapesce; interpreti: Toni Servillo, Elio Germano, Daniela Marra, Barbora Bobulova, Fausto Russo Alesi, Giuseppe Tantillo, Antonia Truppo; produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Les Films du Losange; distribuzione: 01 Distibution; origine: Italia; durata: 122’; anno: 2024.