C’era una svolta – anzi più di una. È nel 1967 che il neopragmatista Richard Rorty lancia la formula linguistic turn per riassumere il paradigma filosofico dominante, dovuto a quel filone delle scienze umane – dallo strutturalismo di Saussure a quello della French Theory, dalla logica di Frege al secondo Wittgenstein alla filosofia analitica – che concentra l’attenzione sulla centralità del linguaggio e, per dirla tutta, sulla riconducibilità di qualunque “linguaggio” alle lingue naturali. Gli anni Sessanta sono in effetti quelli in cui Lacan teorizza che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, Christian Metz tenta di costruire una sintagmatica del cinema su base saussuriana e così via; il 1967 è anche l’anno in cui Roland Barthes, analizzando il sistema della moda, riconduce la fotografia dei capi d’abbigliamento alle didascalie esplicative. E nel 1969 il saggio dell’artista concettuale Joseph Kosuth L’arte dopo la filosofia chiarisce le basi teoriche di un’opera come “Una e tre sedie” in cui una sedia reale e la sua foto convivono con l’ingrandimento della voce “sedia” fotografata dal dizionario inglese. Insomma, siamo in quella che Filiberto Menna chiama la “linea analitica dell’arte moderna” (libro datato 1975) proprio per dire che anche i pittori post-duchampiani sono diventati dei filosofi analitici.
Inevitabile una reazione da parte di chi si occupa di immagini: nel 1992 il professor W.J.T. Mitchell, che insegna storia dell’arte (ma anche letteratura inglese, come ai suoi tempi McLuhan!) all’università di Chicago, sul n° 30 della rivista “Artforum” annuncia il pictorial turn; e non sembri un caso il fatto che l’epoca è quella in cui l’implementazione del world wide web avvia l’attuale dominio della rete sulla comunicazione mondiale (mono- e bi-direzionale). Mitchell discute la possibilità di un rilancio dell’iconologia di Panofsky, entra in dialogo con l’allora fresco Jonathan Crary (ma in Italia Le tecniche dell’osservatore è stato tradotto solo nel 2013), mette in nota il tentativo di Stanley Cavell (The world viewed, 1980) di affrontare il cinema hollywoodiano attraverso il romanticismo anglo-americano; e, in nome della resistenza delle arti visive alla svolta linguistica, candida la storia dell’arte ad una posizione di sfida destinata a coinvolgere le altre discipline:
Sarà necessaria una vasta critica interdisciplinare, una critica che tenga conto di sforzi paralleli, come la lunga battaglia dei film studies, per giungere a un’adeguata mediazione tra modelli linguistici e figurativi (imagistic) per il cinema, e per porre il medium filmico all’interno del più ampio contesto della cultura visuale (Mitchell 2017, p.83).
Nel 1994, mentre esce il libro di Mitchell Picture Theory, lo storico dell’arte Gottfried Boehm pubblica in tedesco il saggio Il ritorno delle immagini, dove si auspica una “svolta iconica” (ikonische Wendung) che possa costruire una scienza dell’immagine all’altezza delle scienze del linguaggio, in un’epoca in cui l’apparente pervasività dell’immagine (stigmatizzata come “post-pensiero” nel best seller del 1997 Homo videns, scritto dal politologo Giovanni Sartori contro il potere politico-mediatico di Berlusconi) occulta il carattere iconoclasta dell’industria mediatica, ostile all’immagine e favorevole alla sostituzione figurativa della realtà (Il delitto perfetto di Baudrillard data 1996).
La nuova epoca dell’immagine, tante volte evocata dopo quella di Gutenberg, è iconoclasta, sebbene i suoi entusiasti adepti non se ne siano neppure accorti. Ciò non vuol dire, naturalmente, che con le tecniche di riproduzione, o di simulazione, non si possano creare immagini forti. La storia della fotografia, del cinema o della più recente videoarte lo ha dimostrato a sufficienza. Fare di queste nuove tecniche un uso che dia forza all’immagine presuppone però la realizzazione di una tensione iconica controllata, che si renda visibile all’osservatore (Boehm 2002, p. 62).
Nel 1998 Fredric Jameson, il teorico del postmoderno come logica culturale del tardo capitalismo, intitola una raccolta di saggi The cultural turn, dove il cambiamento epocale viene visto nella sfera culturale che vira verso il mercato sotto forma di consumi quotidiani di “svago”. Quanto alla Bildwissenchaft del nuovo millennio, essa arriva a sottolineare
l’importanza di contrapporre a quelle teorie che studiano le immagini come configurazioni immateriali una prospettiva fondata invece sullo studio delle condizioni tecnico-materiali che definiscono la presenza delle immagini all’interno di determinati contesti culturali, arrivando a interpretare l’ iconic turn come parte di un più vasto medial turn che si interroga sulle diverse forme di mediazione tecnico-materiale di ogni forma di esperienza e di conoscenza (Pinotti e Somaini 2006, p. 28).
Ma in tutto questo svoltare – dal linguaggio e dai segni (la prima edizione de La svolta semiotica di Paolo Fabbri è del 1998) all’immagine come picture e come icona, dal sistema dei media a quello della cultura e dell’intero antropocene (un titolo del 2016 è Philosophy of the anthropocene: the human turn di Sverre Raffnsøe) – che cosa ne è di un oggetto (quasi) specifico come il cinema? Se W.J.T. Mitchell pubblica The last dinosaur book nel 1998, dunque sull’onda del blockbuster costituito da Jurassic Park (1993) e Il mondo perduto (1997), questo non significa un interesse per Spielberg quanto piuttosto per il marketing delle icone culturali. Un saggio come I media visivi non esistono (2002), il cui succo è che tutti i media sono media misti, va bene per sdoganare tutta l’arte che si è affrancata dai supporti tradizionali, ma appare come un truismo per il mondo degli audiovisivi: il cinema “occhio del Novecento” ha costituito esso stesso un pictorial turn, e semmai adesso si va immettendo in un nuovo recupero della parola stampata in qualità di sfera pubblica, come testimoniano Tre manifesti a Ebbing, Missouri (McDonagh, 2017) e The Post (Spielberg, 2017).
Se qualcosa bisogna prendere dai cultural studies e dai visual studies, è la capacità attenzionale nei confronti di fenomeni contemporanei comeil rapporto fra terrorismo internazionale e comunicazione globale: non a caso l’unico altro volume di Mitchell tradotto in italiano è Cloning terror (2012), analisi del mediascape post-11 settembre; così come non a caso l’ultimo libro dell’estetologo Federico Vercellone dedica un’intera sezione ai “nuovi iconoclasmi” del terrorismo postmoderno. Si tratta allora di far entrare i film in un contesto più ampio delle poetiche autoriali o dell’intertestualità cinematografica, andando a cercare il modo in cui essi “fanno carta” con le altre testualità piuttosto che il modo in cui “fanno calco” con la realtà: l’instant movie di Clint Eastwood Ore 15:17 attacco al treno, nel fare scomparire il cinema sotto il peso di una storia vera interpretata dai reali protagonisti (metodo imparato da Iwo Jima, deserto di fuoco di Allan Dwan), ha l’ambizione di sostituire l’attorialità del terrorista («Il kamikaze è un essere estetico»: Sutter 2017, p. 16) con una “american icon” più credibile del vecchio Rambo. Cosa vogliono davvero le immagini? Dopo un quarto di secolo, la domanda di W.J.T. Mitchell ha una risposta inquietante: farsi la guerra, per invadere il territorio simbolico del nemico (Dunkirk non è anche questo?). E la critica deve decidere come “svolgere” il suo compito agonistico.
Riferimenti bibliografici
G. Boehm, La svolta iconica, Meltemi, Roma 2009.
L. de Sutter, Teoria del Kamikaze, Melangolo, Genova 2017.
W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2017.
A. Pinotti e A. Somaini, La cultura visuale, Einaudi, Torino 2006.
F. Vercellone, Il futuro dell’immagine, Il Mulino, Bologna 2017.