L’estetica è una scienza moderna, come avrebbe detto Benedetto Croce, dalle molteplici nascite. Perfino il nome di questa branca della filosofia avrebbe potuto essere diverso, se la linea tedesca, prima con Baumgarten e poi con Kant, non avesse esercitato un ruolo egemone. Il nome “estetica” è stato infatti coniato dallo stesso Baumgarten e, descrivendo l’esperienza del bello, rimanda alla sua dimensione percettiva e sensibile, la aisthesis. L’italiano Vico, il cui contributo alla nascita dell’estetica era di particolare importanza per Croce, metteva invece l’accento più sulla dimensione della fantasia. E lo scozzese David Hume, a proposito dei saggi sull’arte e sul gusto, non avrebbe parlato di estetica ma di “critica”.
Anche la linea francese di quella che definirei l’estetica alla vigilia dell’estetica dava grande importanza alla questione del gusto e allo statuto della critica d’arte. Un caso eminente è quello di Denis Diderot. L’edizione integrale dei suoi Salons, magistralmente curata da Maddalena Mazzocut-Mis, con in appendice i Saggi sulla pittura e i Pensieri sparsi, già curati da Massimo Modica, restituisce con la sua completezza la portata di questo contributo. Il philosophe e promotore, insieme a D’Alembert, dell’impresa dell’Encyclopédie, in cui tra l’altro voci come Gusto e Arte sono assai significative dell’atteggiamento estetico di quest’epoca, è stato maestro indiscusso di un nuovo genere saggistico: la descrizione dell’opera d’arte, l’ekphrasis per dirla con gli antichi, intesa non come ricostruzione di un momento eminente della storia di un’arte o come elemento caratteristico della carriera dell’autore, bensì come occasione di una riflessione esemplare sui modi e sulle forme dell’esperienza in genere, su cui l’opera offre un punto di vista specifico. È un lascito duraturo, che l’estetica mantiene una volta definitivamente istituita e statuita nei suoi tratti fondamentali nella versione egemone data dalla linea tedesca: è Kant ad affermare, nel § 49 della Critica della facoltà di giudizio, che l’opera d’arte bella “dà molto da pensare” e proprio per questo è arte di genio.
Per arrivare a questo punto ci volevano dei cambiamenti, forse una vera e propria rivoluzione, nel modo di concepire la fruizione dell’opera. Questa rivoluzione si consuma a Parigi, e Diderot ne è uno tra i testimoni più attenti. È a Parigi infatti che l’arte smette di essere principalmente un affare della chiesa e del potere. Intendiamoci: dipinti che raffigurano scene di vita quotidiana o nature morte abbondano nell’arte moderna europea già da prima. Basti pensare alla produzione del giovane Caravaggio. Ma ora l’arte non riguarda più innanzitutto rappresentazioni del potere o immagini sacre: il gusto del XVIII secolo cerca oggetti capaci di suscitare un piacere dato dalla pura e libera armonia delle forme e dei colori. Le chiese e le gallerie dei palazzi reali e principeschi non sono i luoghi deputati all’esposizione di simili oggetti. Parigi inventa un luogo nuovo dove accogliere le opere antesignane del gusto emergente: sono i Salons, spazi pubblici specificamente adibiti, sotto gli auspici e il controllo delle autorità, a mostrare agli addetti ai lavori, ai conoscitori e ai semplici curiosi le novità dell’arte. Qui si può apprezzare la creatività artistica nei suoi ultimi risultati. I Salons sono una tradizione che avrà una fortuna duratura in Francia: è per protesta contro l’esclusione dal Salon ufficiale, sostenitore di un’estetica conservatrice e di un art pompier che, a metà del XIX secolo, gli impressionisti esporranno le loro opere in un Salon indipendente. Il modello francese anticipa così tanto l’idea di politica culturale tanto la rivolta contro di essa, prefigurando il nuovo spazio della galleria privata come collettore dell’innovazione creativa.
Diderot è testimone del cambiamento al momento della sua nascita e comprende che la filosofia deve ripensare il proprio rapporto con l’arte. Il filosofo-critico, di cui lo stesso Diderot incarna il prototipo, deve accompagnare lo spettatore nella fruizione del quadro al fine di fargli cogliere tutti gli elementi impliciti nel suo godimento estetico dell’opera. Come scrive Maddalena Mazzocut-Mis nell’Introduzione:
Diderot è consapevole che la specificità dell’iconico va individuata con un criterio differenziale, che egli sperimenta nel peculiarissimo modo di entrare nel quadro, nelle sue passeggiate descrittivo-esplorative (Promenade Vernet), nella ridefinizione delle categorie estetiche – bello, brutto, sublime – in un rigenerato sistema simbolico, che individua vie sperimentali per tradurre in linguaggio i significati immaginali che egli decodifica e codifica (Diderot 2021, p. XI).
La nuova critica filosofica dell’arte praticata da Diderot non presuppone infatti assiomi generali: parte dall’esperienza personale e a partire da questa individua nell’opera un tratto saliente, un candidato a indicare la strada per un ingresso privilegiato nel quadro. Il filosofo mostra allo spettatore comune che, se vuole apprezzare il significato dell’immagine, dev’essere “assorbito” al suo interno, per usare l’espressione di Michael Fried. Il filosofo non prescrive una poetica dell’opera, ma tenta di intonare la propria sensibilità a quella del pubblico, mostrando come l’opera anticipi il suo sentimento. Si delinea così, nelle parole di Mazzocut-Mis, il programma di un’estetica in fieri:
Diderot utilizza il linguaggio, da un lato, per mettere in atto un’ispezione più profonda e articolata del molteplice percettivo; dall’altro, per formulare un giudizio di gusto, sulla base di un’attenta analisi della tecnica, della specificità pittorica di ogni singolo artista e di un raffinato sistema comparativa tra i singoli pittori e le singole arti; infine, per restituire, a volte in modo eccedente, le emozioni che il quadro suscita (ivi, p. XII).
Ci sono buone ragioni per riprendere in mano il Diderot dei Salons in questa edizione integrale e non sono solo ragioni riconducibili a un interesse per la storia della filosofia moderna. Il philosophe, nelle sue vesti di critico d’arte, ci aiuta a ripensare un aspetto fondamentale dell’opera d’arte, che negli ultimi decenni è stato a torto troppo spesso dimenticato tanto dagli addetti ai lavori quanto dai teorici. L’opera d’arte va vista, tra le altre cose, come un dispositivo che riorganizza la percezione e rigenera la sensibilità del pubblico: indirizzando o sviando lo spettatore, informandolo o disorientandolo, l’opera costruisce percorsi che si rivolgono a una facoltà percettiva che va risvegliata e stimolata. Nel recente dibattito su realtà virtuale e augmented reality, e sui loro possibili usi artistici, dovremmo ricordare che si tratta, prima di tutto, di percezione aumentata, di un’esperienza che richiede, come aveva previsto Diderot, l’assorbimento dello spettatore nell’immagine, la sua trasformazione in attore partecipe all’interno di una scena virtuale, il suo ritornare alla realtà dopo aver prestato un corpo vivo alle figure dipinte con una sensibilità arricchita. Accadeva nel XVIII secolo con la pittura esposta nei Salons. Accade oggi con le installazioni di realtà virtuale e i dispositivi che implementano la augmented reality.
Denis Diderot, I Salons. Edizione integrale, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, Bompiani, Milano 2021.