Colonna sonora: pa-paràppa pa-parà…
Che siano passati quarant’anni dai reaganiani anni Ottanta lo si capisce dal fatto che nessun giovane mette in connessione il titolo Raiders of the Lost Ark con un titolo come Wall Street (Stone, 1987), mentre all’epoca l’enfasi grafica sul logo Raiders giocava sull’attualità di questi personaggi emergenti che erano i nuovi broker del finanzcapitalismo descritti da E.W. Allison nel libro I Raiders di Wall Street (1986). Se gli archeologi buoni come il professor Jones si limitano a cercare idoli preziosi a scopi scientifici, gli archeologi cattivi si alleano con i nazisti per impossessarsi dell’arca dell’alleanza (la cassa contenente le tavole dei dieci comandamenti, insomma l’oggetto più sacro della religione israelitica, la cui ubicazione è un mistero da prima dell’era cristiana) e dunque avere accesso a poteri divini da utilizzare a scopo bellico. Non tanto «capitalismo come religione», secondo quanto teorizzava Walter Benjamin nel 1921, quanto piuttosto «religione come capitale» – con, sullo sfondo, la questione ebraica.
Visto col senno del dopo-11 settembre, è evidente il tasso di “orientalismo” (il libro di Edward Said è del 1978) presente nel film, in particolare nella divertente scena (si dice inventata da Harrison Ford e non presente nella sceneggiatura di Lawrence Kasdan) in cui un arabo che fa volteggiare virtuosisticamente la sua scimitarra viene freddato da una pistolettata di Indiana Jones: in pochi secondi la tecnologia vince sulla tradizione, il pragmatismo ridicolizza il ritualismo, il look western è più funzionale del look beduino e insomma l’America vince lo scontro delle civiltà in anticipo sul libro di Samuel Huntington (1996) e senza sospettare lo spirito del terrorismo. D’altro canto, questo è il primo film in cui l’ebreo errante Spielberg – ancora lontano dalla decisione di produrre personalmente Schindler’s List (1993) – si confronta esplicitamente con questioni religiose, pur nel contesto di un fumetto d’avventura: quando il traduttore della frase scritta in ebraico sul medaglione nomina “il dio degli ebrei”, un vento misterioso muove gli oggetti appesi nella stanza e fa tintinnare le lampade; la divinità si manifesta come pneuma, incrinando lo scetticismo dello scienziato che ha ironizzato sull’assonanza arca/archeologia. Il nemico non è un’altra religione monoteista bensì l’esoterismo nazista (affrontato nel 1960 dal best seller di Pauwels e Bergier Il mattino dei maghi) che poi si metterà alla ricerca del sacro graal in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989).
Quarant’anni dopo, ci accorgiamo che un film di quarant’anni fa era ambientato un quarantennio prima, precisamente nel 1936 (anno di nascita di Silvio Berlusconi, tanto per sintonizzarsi sulla distanza storica, ma anche anno delle olimpiadi di Berlino riprese da Leni Riefenstahl): un film programmaticamente “non contemporaneo”, volutamente rétro (come già il precedente 1941) e dunque completamente interno alla condizione postmoderna della Nuova Hollywood. Fredric Jameson usa il termine «cinema della nostalgia» per riferirsi sia ai film in cui la generazione dei movie brats si gira a guardare gli anni Cinquanta (da American Graffiti di Lucas a Rusty il selvaggio di Coppola – ma bisognerebbe aggiungere Ritorno al futuro di Zemeckis) sia «il recupero stilistico degli anni Trenta in America e in Italia, rispettivamente in Chinatown di Polanski e nel Conformista di Bertolucci» (Jameson 2007, p. 36).
Curiosamente, Jameson vede una rappresentazione esteticamente raffinata degli «eterni anni Trenta» in Brivido caldo (1981), esordio alla regìa di Lawrence Kasdan (cioè lo sceneggiatore di Predatori) uscito nel 1981 (cioè lo stesso anno di Predatori). Ecco allora che le annotazioni riguardanti Brivido caldo potrebbero essere estese a I predatori dell’arca perduta: «Ci troviamo ormai dentro l’“intertestualità” come elemento deliberato e interno dell’effetto estetico, quale operatore di una nuova connotazione della “passatezza” e della profondità pseudostorica, in cui la storia degli stili estetici prende il posto della storia “reale”» (Jameson 2007, p. 37).
Il cinema postmoderno di Spielberg si sviluppa lungo due assi: estetica della fretta – suo marchio di fabbrica a partire dal perpetuum (auto)mobile di Duel – con l’assoluto predominio del ritmo di montaggio già pianificato in sede di storyboard (fra i cinque oscar a Predatori c’è quello per il miglior montaggio a Michael Kahn, che lo riavrà per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan); estetica degli effetti speciali, in genere affidati alla lucasiana Industrial Light and Magic, che per Predatori significa la consegna dell’oscar a Richard Edlund (supervisore degli effetti visivi, compreso il gran finale dell’apertura dell’arca), Kit West (supervisore degli effetti meccanici, tipo la grande palla che rotola verso Indy nell’episodio peruviano), Bruce Nicholson (effetti ottici) e Joe Johnston (poi promosso regista). Come già in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), guarda caso un film ambientato nello stato dell’Indiana, gli effetti speciali sono dell’ordine dei miracoli e i miracoli sono dell’ordine degli effetti speciali. Utilizzando una tecnologia che precede la computer animation – che inizierà l’anno successivo con Tron (Lisberger, 1982) e culminerà con i dinosauri sintetici di Jurassic Park (1993) – Steven Spielberg in Predatori costringe il cinema a fornire agli spettatori l’esperienza negata ai protagonisti del film: vedere Dio senza morire.
Che siano passati quarant’anni dall’epoca in cui i film erano qualcosa di diverso dai serial, ce lo dice il fatto che il titolo I predatori dell’arca perduta è fuori catalogo, e il dvd che dovete chiedere è la variante (con ridoppiaggio del 2009) Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta: il nome del personaggio ha preso il sopravvento in quanto marchio che unifica i sequel e i prequel, comprese le due stagioni di Le avventure del giovane Indiana Jones (1992/96) ideate da George Lucas e firmate da diversi registi. A 78 anni Harrison Ford si cimenta in Indiana Jones 5 (tanto la computer grafica fa miracoli a partire dallo scorsesiano The Irishman) mentre Spielberg con West side story gioca ancora a far scordare il flop dell’antico finto-antico 1941. L’eterna Hollywood ha ripreso il posto della Nuova Hollywood?
Il finale wellesiano del film – con l’arca dell’alleanza ormai impacchettata pronta ad essere archiviata nel grande deposito da cui forse non uscirà mai più – ci ricorda il destino dell’opera d’arte: ogni vecchio film è un’arca perduta, che solo allo sguardo del cinefilo archeologo – dunque solo alla riapertura – svelerà il suo contenuto, subendo il giudizio del mondo accademico (vero professor Jones?) ma anche quello del mercato con i suoi andamenti mai netti. Se Indiana Jones invecchia oltre l’effetto vintage degli «eterni anni Trenta» teorizzati da Jameson, è perché il postmoderno è ormai dato per morto. Non sono i chilometri, amore, sono gli anni.
Riferimenti bibliografici
F. Jameson, Postmodernismo, Fazi, Roma 2007.
I predatori dell’arca perduta. Regia: Steven Spielberg; soggetto: George Lucas, Philip Kaufman; sceneggiatura: Lawrence Kasdan; fotografia: Douglas Slocombe; montaggio: Michael Kahn; effetti speciali: Richard Edlund; musiche: John Williams; scenografia: Norman Reynolds; costumi: Deborah Nadoolman; interpreti: Harrison Ford, Karen Allen, Paul Freeman, Ronald Lacey, John Rhys-Davies, Denholm Elliott, Alfred Molina, Wolf Kahler, Anthony Higgins; produzione: Frank Marshall, Lucasfilm; distribuzione: CIC; origine: Stati Uniti d’America; durata: 115 min; anno: 1981.