I libri hanno a che fare sempre con un’assenza. Essi cercano di colmare, in maniera più o meno efficace, lo scarto che si dà tra il pensiero e la “cosa del pensiero” stesso. Nei testi di filosofia questa tendenza assume un carattere ancora più marcato in virtù della natura dell’oggetto d’indagine.
Il volume collettaneo, I filosofi e gli zingari, a cura di Gianluca Solla e Leonardo Piasere, compie, se è possibile, un ulteriore passo in avanti in questa direzione. E ciò è dovuto tanto alla caratura filosofica di cui si fa carico quanto all’ineffabilità dell’”oggetto” delle sue pagine: gli zingari.
Prima di procedere all’analisi del testo ed evidenziarne le traiettorie fondamentali, è opportuno precisare che il termine “zingaro” e i suoi derivati sono usati in maniera esplicita dagli autori e dai curatori del nostro volume al fine di sottolineare la sua valenza antropologica, sociale e soprattutto politica. Nell’epoca della biopolitica dispiegata, in cui la vita diviene illegale nella propria nudità, in cui ogni spostamento fuori controllo e “fuori legge” (come quello degli zingari, appunto) è guardato con sospetto, lo scopo degli autori è quello di «utilizzare questo nome obsoleto appunto come sintomo» (Solla, Piasere 2018, p. 18).
Il volume si presenta come un manuale di storia della filosofia, orchestrato però a partire da un angolo ermeneutico ben preciso: la presenza (o l’assenza, che è lo “stesso”) degli zingari nelle pagine degli autori moderni e contemporanei. Da Lutero a Žižek, passando per Kant, Nietzsche, Derrida e tantissimi altri, gli autori propongono una polifonia interpretativa sontuosa al fine di mostrare come gran parte della storia della filosofia occidentale, almeno dal XVI secolo in avanti, si sia confrontata in maniera più o meno diretta, più o meno esplicita, con quello che rappresenta un vero e proprio fantasma della cultura occidentale. Accanto al fantasma del comunismo, e in maniera altrettanto unheimlich e spettrale, per le nazioni europee si aggira un altro fantasma, una presenza-assenza, un residuo che, nella traccia lasciata dal suo passaggio, costringe il pensiero moderno e la razionalità occidentale a una torsione su sé stessi fino alla messa in scacco di alcuni dei propri presupposti fondamentali.
Identità, proprietà, soggettività sono solo alcuni dei monoliti della nostra cultura che la presenza, sempre differita e occultata, degli zingari frantuma sotto i colpi del proprio divenire. In altre parole, nell’impossibilità a dire “io sono”, “io ho”, “io abito”, che si coagula nell’esistenza, o meglio nella vita sempre errante degli zingari, è in gioco nientemeno che la chance di ripensare il nostro essere-nel-mondo, e il nostro con-essere, in maniera polare rispetto alle coordinate nichilistiche della soggettività occidentale.
I filosofi e gli zingari raccoglie oltre trenta saggi che indagano il modo in cui diversi filosofi hanno trattato nelle loro pagine la questione degli zingari. In questo contesto mi limiterò, seguendo alcune tracce fornite dalla corposa introduzione dei curatori del volume Solla e Piasere, a fornire alcune suggestioni, alcune chiavi di lettura che il volume, nella sua inorganica complessità, ci fornisce. Il discorso condotto dagli autori sugli zingari e sull’antiziganismo potrebbe innanzitutto essere per molti versi associato all’analisi della questione ebraica e dell’antisemitismo. È sintomatico che un libro di Donatella Di Cesare pubblicato qualche anno fa e intitolato Heidegger e gli ebrei, nell’indagare la diffusione dell’antisemitismo nella filosofia occidentale, faccia riferimento agli stessi autori che abitano le pagine del volume qui in esame. E anche il punto di partenza è lo stesso, ossia Lutero. Dalle parole del più grande riformatore della modernità, di chi pose la questione morale al centro del discorso religioso, emerge forte una resistenza, oserei dire un odio verso tutti coloro che hanno fatto dell’erranza (per scelta o condizione) la loro forma di vita. Ebrei o zingari che siano.
In secondo luogo è possibile trovare delle similitudini anche nel processo di ipostizzazione teorica operato dalla cultura occidentale nei confronti della figura dell’ebreo, da un lato, e quella dello zingaro dall’altro. Essi divengono, il più delle volte con accezione negativa, degli archetipi. Ma come ricorda Sartre, l’Ebreo, in quanto universale, non esiste; è piuttosto una proiezione dell’antisemita, che ha bisogno di oggettivare il proprio odio in una figura ben determinata e renderla bersaglio di ogni attacco possibile. Allo stesso modo lo zingaro, in quanto tale, non esiste; rappresenta, invece, un mito creato ad hoc per dare consistenza via negationis al carattere identitario della soggettività moderna.
Nello zingaro, l’antimoderno par excellence, tutti i parametri della modernità vanno in frantumi. Lo Stato, la grande invenzione della modernità, perde la propria forza performativa di fronte ad un popolo che è per sua vocazione apolide; l’identità non ha più ragione di esistere se l’incertezza dell’origine degli zingari impedisce di tracciarne l’identikit; la proprietà ha poco senso per coloro che in qualche modo vivono in una “comune” permanente; la lingua (centrale, ad esempio, nel discorso identitario di Lutero) perde la propria consistenza al cospetto dell’argot, parlato da coloro che sono considerati per tale ragione barbaros. In altre parole ogni pregiudizio antizingaro è creato, pensato, diffuso – al di là della sua reale effettività e in quanto ritenuto capace di «spezzare la catena lingua-popolo-» (ivi, p. 294) – al fine di saldare per opposizione i punti fissi propri del soggettivismo identitario moderno.
Attraverso questa tendenza gli zingari diventano il “resto”, il fuori del discorso filosofico occidentale. Potrebbero in qualche modo essere associati alla figura dell’Homo sacer di cui parla Agamben, centrale nel duplice movimento di inclusione ed esclusione che è al cuore della macchina antropologica occidentale. In tal modo gli zingari diventano il nome di «una generalizzazione, ciò equivale a dire che è un silenzio: è il silenzio dell’universale davanti alla singolarità delle vite» (ivi, p. 25).
Se, come ricorda Derrida, nella filosofia occidentale e anche nel pensiero comune il termine animale, declinato al singolare, rappresenta il nome di una violenza perpetrata al fine di sottolineare l’unicità e la sovranità dell’uomo, allo stesso modo l’universale “zingaro” è utilizzato per semplificare, oggettivare, dominare, escludere un insieme di popoli che fa della singolarità, dell’unicità della loro esistenza – così come avviene per ogni vivente – la propria peculiarità. Anche nel discorso sugli zingari è in moto quel processo divisivo che funziona esclusivamente per partizioni in compartimenti stagni (tedeschi/ebrei, occidentali/orientali, umani/animali, stanziali/migranti), ignorando il magma irrequieto del divenire del vivente, che scioglie ogni possibile identificazione stabile.
Una tale tendenza all’esclusione, alla riduzione al silenzio, se non addirittura alla discriminazione e alla violenza potrebbe essere letta anche in chiave psicoanalitica a partire dalla nozione di rimosso. In altri termini «gli zingari sono chiamati a fare la parte di ciò che c’era prima della formazione del soggetto occidentale e che resta inaccessibile a tale soggetto» (ivi, p. 31). Essi sarebbero l’incarnazione di quell’Es che nella topica freudiana deve essere silenziato a favore dell’Ich; da qui il loro carattere fantasmatico, residuale e al tempo stesso inquietante.
Questi sono solo alcuni dei temi che emergono dalle pagine del volume I filosofi e gli zingari; naturalmente ci sarebbero moltissime altre chiavi di lettura possibili per il volume. Mi sono qui limitato a proporre qualche indicazione per un confronto con questo testo che, nella sua ingestibilità, nel caotico magma delle sue interpretazioni, oserei definire necessario. Necessario in quanto pone come suo tema centrale, una questione, quella del confronto con la differenza e con il differire, in cui ne va del “nostro stesso essere”. Nel rapporto della cultura occidentale con gli zingari è in gioco un ripensamento essenziale e una messa in mora della soggettività moderna, i cui dogmi hanno imprigionato il carattere dinamico, errante, sempre nomade del vivente. Ecco che, allora, gli zingari «malgrado tutto, diverranno la figura o l’emblema stesso di un superamento nomadico della modernità intesa nei suoi aspetti più autoritari e oppressivi, aprendo a un’inedita ziganofilia» (ivi, p. 32).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.
D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
J.P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 2001.
G. Solla, L. Piasere, a cura di, I filosofi e gli zingari, Aracne, Roma 2018.
*In copertina Il tempo dei gitani di Emir Kusturica (1989)