di ILARIA PIPERNO
I colpevoli di Andrea Pomella.
La depressione di un giovane uomo originata dall’abbandono del padre da bambino e la necessità di nominare, conoscere e fronteggiare questa malattia complessa e proteiforme, questo il nucleo di L’uomo che trema (Einaudi, 2018, Premio Napoli 2019), lo – splendido – memoir di Andrea Pomella di cui abbiamo parlato qui. La sorprendente commozione di quel libro, la cifra della sincerità di quella scrittura – rara nella letteratura italiana di oggi – ci aveva stordito, una ricchezza di citazioni e numi tutelari ai quali sorreggersi e rendere le proprie spalle un po’ più larghe davanti alla malattia depressiva. Eppure la frantumazione di una vita familiare e di un’infanzia, la scelta di un bimbo di compiere un parricidio simbolico e allontanarsi per trentasette anni da colui che per primo si era allontanato, era un materiale esistenzialmente troppo magmatico e urgente per non tornare a scriverne. Il risultato è un altro memoir, altrettanto ricco e toccante, I colpevoli, «una lettera dai giorni del perdono».
«Male e bene non si pongono sulla stessa linea nell’orizzonte degli uomini» scrive Pomella, e adagiati tra l’uno e l’altro, sospesi in una coltre lieve eppure pesantissima, ci sono loro, il tradimento e la colpa. Quanto e come il tradimento è veicolo verso un’esistenza più piena e felice e quando invece è un monito a cui non contravvenire? E quanto l’abbandono di un padre nell’infanzia, oltre dar vita a una depressione, impedisce al bambino di diventare uomo? «Mi sento spesso un bambino a dire il vero; vorrei dire, mi sento da sempre un bambino». È più grave il tradimento del padre verso un figlio o viceversa? E quando il tradimento è verso l’altro e quando verso noi stessi?
La narrazione del rapporto con un padre vissuto come un’assenza gigantesca per trentasette anni e poi la scelta di confrontarsi nuovamente con lui, con ciò che è diventato, è al centro del libro, con i suoi meccanismi psichici e sorprese emotive: «Riesco a sopportare tutto il carico sbalorditivo della nostra rifrequentazione perché idealmente ti ho privato di una vita». Ma fino a dove può spingersi questo nuovo confronto e come attuarlo, vivificarlo nel presente? «Per far evolvere il nostro rapporto, forse è proprio di una routine che abbiamo bisogno. Se tra noi non ci fosse questa gigantesca faglia di tempo, oggi le cose sarebbero secondo questo regime ordinario, senza sussulti».
Pomella narra la costruzione di questo rapporto nelle sue sfumature più profonde ma anche più quotidiane e concrete: la condivisione di un hobby e lo straniamento davanti all’organizzazione delle feste natalizie, la cordialità di uno scambio telefonico che non riesce a durare più di qualche minuto, la normalità disagevole di un pranzo domenicale fatto per la prima volta dopo trentasette anni di vita a distanza. La reazione di un padre che è ora nonno davanti al proprio nipote, figlio del figlio un tempo tradito.
Queste e altre riflessioni sono ancorate a una scrittura vivida, con una cifra linguistica senza tempo, dove sono riuniti un «sempiterno ricordo» e l’impostura accanto a un «mi sgameranno» e, tra loro, una «catastrofe emozionale» e una «felicità abusiva», una lingua che si tocca, si vede, si sente. Anche questa è la forza del memoir di Andrea Pomella, una lingua che rinnova il vocabolario dell’autobiografia e della riflessione memorialistica, rendendola attuale e contemporaneamente atemporale. L’intimità e l’eterno delle emozioni ha bisogno di una lingua così, ha bisogno di tutte le sfumature, ha bisogno di tutte le epoche.
Può sembrare che queste pagine siano il processo di perdono di un figlio nei confronti di un padre “traditore”, in realtà sembrano narrare il percorso – forse ancora più difficile – del perdono verso una parte di se stessi, che nella vita è spesso la difficoltà più profonda, un perdono che diventi viatico di vita rinnovata, un perdono che sia abbandono di quell’ostinazione nella quale fiorisce la crudeltà verso noi stessi e la nostra vita.
Ma come si può accedere al perdono? Come percepirne il potere salvifico? Una prima risposta Pomella sembra donarla interrogandosi sulla felicità, questo concetto così caro agli uomini e agli Dei, al centro di trattati dall’Antichità ai nostri giorni: «Ecco la felicità: una cosa dolorosamente imperfetta di cui riusciamo a intuire appena la perfezione». È solo quando impariamo a comprendere l’imprescindibilità dell’imperfezione nella nostra esistenza, quando impariamo a includerla anche nelle cose più care della nostra vita come gli affetti, i momenti, noi stessi, è solo allora che accogliamo come possibilità la più grande delle aspirazioni: quella di essere felici.
A. Pomella, I colpevoli, Einaudi 2020.