Cosa avete fatto di bello ad Halloween? Io mi sono spezzato le gambe cadendo da un dirupo, sono stato inseguito da una specie di umanoide dalla testa di corvo e ho assistito alla morte di un mio compagno di viaggio a causa di una brutta infezione. Insomma, ho giocato a Fear & Hunger, il survival horror del 2018 che continua a far parlare di sé per la difficoltà a dir poco punitiva, i contenuti morbosi e, soprattutto, le atmosfere strazianti. Chi ha provato a metterci mano sa bene a cosa va incontro: la fame che vi costringe a ingoiare carne imbottita di insetti; una scelta in combattimento frettolosa che vi rende la preda sessuale di qualche indefinibile abominio zannuto; i lanci di moneta che separano una sana dormita da un inesorabile sbudellamento. 

Pur ottenendo valutazioni nel complesso positive, il gioco è stato spesso criticato per i suoi contenuti eccessivamente espliciti: necrofilia a cielo aperto, bagni di sangue, orge e altre scene truculente che metterebbero alla prova anche gli stomaci più temprati. Secondo alcuni critici, insomma, Fear & Hunger è un’infame perla horror che raggruppa troppo in troppo poco spazio. Come dar loro torto? Specie considerato il catalogo di asperità menzionate sinora. Non fosse che, come appurato dai fan irriducibili del titolo, la cifra veramente disturbante del videogame non sarebbe tanto in ciò che c’è quanto, in senso del tutto contrario, in ciò che non ci è dato vedere: i veri guai cominciano proprio quando, aspettandosi di incappare in un destino orribile, il giocatore si trova intrappolato nel puro nulla, in un universo che dopo averlo torturato e messo a durissima prova, smette di rispondergli. A far paura più di qualsiasi mostro immaginabile sono le atmosfere e, in particolare, il profondo senso di abbandono che proviamo una volta che il gioco sembra dimenticarsi della nostra esistenza. 

Non è un caso se, condividendo le loro esperienze in rete, molti utenti di Reddit abbiano sentito il bisogno di spiegare una simile sensazione di spaesamento appellandosi a Lovecraft, o abbiano definito quello di Fear & Hunger un parente dark fantasy dell’universo lovecraftiano. Difficile credere che lo scrittore di Providence, maestro assoluto dell’orrore cosmico morto pressoché anonimo nel 1947, avesse potuto prevedere di ritrovarsi citato in un blog di Reddit. Eppure, questo esempio non è che la punta dell’iceberg, l’ultima e più recente prova di come il nome di Howard Phillips Lovecraft si sia ormai comodamente accasato, pantofole e pigiama, nel nostro immaginario quotidiano.

Dalla critica letteraria ai semplici luoghi comuni, passando per la cultura popolare in senso lato, la musica, il cinema e non in ultimo i videogame e i fumetti, il suo fantasma è oramai una presenza irriducibile della nostra epoca. Non soltanto una potente fonte di ispirazione, ma persino una guida spirituale, una bussola per orientarci in un mondo che trabocca di inquietudine e buchi di senso. Sarà forse che, storpiando una celebre sentenza di Michel Foucault, il nostro è un secolo lovecraftiano? Capiamoci, setacciare il passato a caccia di profeti che rendano ragione del presente è sempre un esercizio rischioso. Il pericolo è di finire per appiattire entrambi i termini di paragone in una lezioncina sdolcinata: si adatta l’attualità al prima, e si semplifica il prima conservando solo ciò che di esso ci fa comodo. Un’epoca a caccia di profeti è spesso e volentieri un’epoca a caccia di compromessi, no? 

In piena controtendenza rispetto a questa dispersione dell’eredità lovecraftiana, Marco Taddei e Maurizio Lacavalla firmano una graphic novel che non scaraventa il lascito di Lovecraft all’esterno, proiettandolo in tutte le direzioni a tiro, ma ritorce l’opera contro il suo stesso creatore. Il loro HPL. Una vita di Lovecraft, si impegna in quello che è forse il proposito più difficile, nonché sicuramente il più blasfemo di tutti: narrare e disegnare la vita di Lovecraft come se fosse un racconto di Lovecraft. Il racconto indicibile, inimmaginabile, che lui stesso non ha mai osato scrivere, insomma. 

L’operazione, diciamolo subito, è riuscita. I disegni di Lacavalla e i testi di Taddei plasmano un itinerario folle, in cui ricordi e brandelli onirici, immaginazione e realtà, passato e presente si impastano nelle sabbie mobili che minacciano di inghiottire qualsiasi nostra certezza. Perché pensare come Lovecraft non è un dono, bensì un fardello. E il risultato finale fa proprio questo: ci immerge in un mondo in cui ci sentiamo a disagio, che ci respinge e non ci vuole. Che ci ricorda, una tavola dopo l’altra, che la nostra centralità nell’universo è abusiva, una gigantesca illusione che continuiamo a coltivare nonostante tutto. 

HPL è diviso in tre atti, ognuno dei quali si tiene in bilico tra il sonno, l’allucinazione e l’inesorabilità del reale. Lo stile grafico e narrativo varia a seconda delle situazioni, proiettandoci ora in fondali plumbei, divorati dall’ombra, ora in estasi di luce che assottigliano il tratto fino a raffreddarsi in un puntinismo austero, gelido, che brucia come il ghiaccio. Resoconti, aforismi, brandelli di testo e cantilene paranoiche si intersecano in mezzo a dialoghi forbiti, non per rompere la struttura spazio-temporale del racconto, quanto piuttosto per restituire quel perverso gioco che Lovecraft per primo aveva scrutato dentro e fuori di sé: esiste un determinismo cosmico, un insieme di forze nell’universo che agiscono in modo antecedente, concomitante e capriccioso, e tuttavia l’esperienza umana è talmente insignificante da non riuscire a mantenersi con entrambi i piedi all’interno di questa giostra, che gli piaccia oppure no. I veri fili che muovono l’universo risiedono in qualcosa che rimane al di fuori della nostra portata di mediocri particelle razionali. Un po’ come scrive il Nostro, quando confessa all’amico Rheinhart Kleiner che «per me la vita è un’immagine di cui non sono mai stato né sarò parte» (Lovecraft 2007, p. 62). E che la vera tristezza non riguarda tanto la condizione personale di chi vive, ma la «terribile malinconia» di un’esistenza «senza scopo» (ivi, p. 63). 

Il primo atto è dedicato all’Howard bambino. Attraverso il recupero di eventi reali (la morte del padre prima, dei nonni materni successivamente) Taddei e Lacavalla ci guidano nell’abisso introspettivo in cui Lovecraft si è rifugiato nell’infanzia, quello che lo portava a dire di essere una creatura nata in un’epoca antecedente, scandita da un linguaggio e da un sistema di credenze arcaiche, ancorate alla terra e alla materia. O che gli insegnava che, per provare il fremito dell’orrore, fosse sufficiente alzare lo sguardo, perché le peggiori paure si annidano nella realtà, e non certo altrove, in una scena altra, fantasiosa e consolatoria. E che per sfuggire a questo orrore avido, sovrastante, occorresse concentrarsi sulle piccole cose, come sulla chimica che aveva imparato ad amare grazie alla zia Lilian, o in alternativa fuggire a bordo dei corpi celesti lontani che scrutava grazie al telescopio regalatogli dalla madre. 

Il secondo atto ci trasporta nella New York vista dagli occhi del nostro protagonista, il «labirinto di mura putrefatte» (Taddei, Lacavalla 2024, p. 129) che nelle lettere diventa un grosso cadavere illuminato dalle iridescenti luci della putrefazione. È l’insofferenza di Lovecraft per i frenetici e soprattutto vampireschi ritmi del capitalismo, un sentimento che si tramuta in immagine non appena le tavole newyorchesi cominciano a essere deturpate da scritte pubblicitarie che fuoriescono dalla loro naturale collocazione come metastasi, per riversarsi su tutto ciò che le circonda, per coprire e mangiare pezzo per pezzo lo spazio della narrazione

Il terzo atto, ambientato dopo il ritorno a Providence, l’unico posto nel mondo a cui Lovecraft sentiva di appartenere davvero, è una lenta e logorante discesa negli inferi dell’inconscio dello scrittore. La salute cagionevole che lo accompagna da quando era bambino peggiora, la necessità di scrivere prevarica sull’istinto di conservazione. Il mondo circostante si riduce a un pallido murale di codici, come se le molecole dell’universo si mostrassero d’un tratto per quel che sono: una matassa di geroglifici impermeabili alla comprensione umana o, se non altro, un rebus accessibile soltanto a chi è disposto a «disertare dalla specie» (ivi, p. 216). Se la condizione umana è un baluardo che ci protegge dal confronto con una verità insostenibile, Lovecraft sceglie di rinunciare alla vita per abbracciare la futilità. Farsi a sua volta molecola, corpuscolo senza cronologia né collocazione spaziale, un apolide che vaga liberamente nel flusso temporale, che è adulto e bambino allo stesso tempo, vivo e morto, tutto e niente in un medesimo, compresso e inutile istante. La consapevolezza della realtà, come lui stesso ricordava a Maurice Moe, può condurre un uomo a uccidersi, o confinarlo in uno stato depressivo che sfocerà inevitabilmente nel suicidio. E se la verità è inconsistente, un sipario che si apre sul nulla, oppure un trauma intollerabile per il narcisismo umano, allora i sogni, le allucinazioni, le dissociazioni schizoidi diventano realtà altrettanto attendibili del mondo della veglia. Perché se nulla è vero, diceva un altro campione della futilità come William Burroughs, allora tutto è permesso, e dunque buona fortuna.   

Che questo sia il secolo di Lovecraft oppure no non ci è ancora dato saperlo. Una cosa è certa però: Taddei e Lacavalla ci dimostrano quanto sia impegnativo, se non persino funesto, pronunciarsi lovecraftiani fino in fondo. Del resto, e per citare uno dei loro passaggi migliori, «se fosse davvero così come scrivi, tu non dovresti quasi esistere, saresti una specie di paradosso nel mondo stesso che racconti» (ivi, p. 140). Una specie di paradosso che ci toglie il sonno. E che incendia l’immaginazione. E che ci fa vivere e bruciare. 

Riferimenti bibliografici
H.P. Lovecraft, L’orrore della realtà, Edizioni Mediterranee, Roma 2007. 

Maurizio Lacavalla, Marco Taddei, HPL. Una vita di Lovecraft, prefazione di Marco Peano, Edizioni BD, Milano 2024.

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