Vendite in libreria o traduzioni in lingua straniera, citazioni rilevate da software o numero di conferenze sparse per il globo: qualunque sia il criterio, Giorgio Agamben resta il filosofo più noto in circolazione. Durante seminari affollati non è difficile constatare da parte degli astanti un moto di assenso tanto acceso da assumere toni accorati, quasi un tifo impaziente. Negli ambienti accademici, invece, questa popolarità produce reazioni diverse. Frequente è l’atteggiamento di chi, dal prossimo libro, attende la buona novella. Sempre nutrito, però, è lo schieramento di coloro che diffidano. Un recente bilancio su cosa significhi «fare filosofia oggi» ricorre alla mossa retorica della damnatio memoriae: il nome di Agamben non compare mai, neanche tra i «filosofi mediatici» (categoria a cui apparterrebbe Massimo Cacciari: Marconi 2014, p. 47 e sgg.) o nel cliché della «figura nietzschiana che è insieme profeta di un mondo nuovo e ribelle all’ordine esistente» (il riferimento è a Toni Negri: ivi, p. 5). Non mancano critiche esplicite, di ordine teorico-filologico. Derrida (2002, p. 391 e sgg.) obietta che il lessico greco circa la vita è meno dicotomico di quanto vorrebbe Agamben; nel numero in uscita della rivista “Palinstesti” che dedica una sezione alla discussione di Homo sacer (Vita, istituzioni, forme-di-vita: a partire da Homo sacer di Agamben), emerge, ad esempio, che in Altissima povertà il pensiero francescano è rappresentato secondo una prospettiva monoculare (Parisoli 2019).
Quale che sia l’attitudine prediletta, rimane un elemento di fondo: l’opera di Giorgio Agamben è ossigeno per chi, nell’epoca dell’ANVUR e VQR, boccheggia. Non è un mistero che l’intento programmatico dei dispositivi ministeriali sia fare della scrittura filosofica un “prodotto”. Il bravo filosofo dovrebbe coincidere con l’icona tirata a lucido dell’operaio linguistico, in linea con il mercato giacché veloce esecutore del compito aziendale. La logica è neoliberale: ridurre la prassi a poiesis, l’agire politico in produzione di opere, tramite la richiesta di un numero inflattivo di pubblicazioni brevi in grado di dare risposta a problemi di dettaglio. Se in gamba e fortunato, il filosofo può ambire a essere «un operaio specializzato» (Marconi 2014, p. 19). L’«artigiano competente» (ibidem) può aiutare le tecnoscienze a sciogliere interrogativi raffinati: a chi dare un fegato per il trapianto? Al vegetariano infetto o all’alcoolista privo di virus? Meno peggio l’estinzione dei ghepardi o la scomparsa dei puma di montagna?
La filosofia di Agamben, cioè dell’autore contemporaneo più discusso nel mondo, non appartiene a questo scenario. Basta scorrere le pagine del ciclo Homo sacer (ora disponibile in un volume unico, Edizione integrale. 1995-2015, Quodlibet) per constatare che uno dei suoi tratti distintivi consiste nella completa mancanza di allineamento al dispositivo accademico. Invece di saggi brevi Agamben produce libri corposi; piuttosto che inserire i giovani nel mondo del lavoro, il filosofo mette in discussione la coppia “produzione”/”prassi”. È opportuno, a tal proposito, combattere un equivoco esiziale. Sarebbe scorretto giudicare questa scelta (un ciclo monografico pluriennale) frutto di una idiosincrasia. È vero il contrario. Questa mancanza di allineamento è la filosofia, non uno dei suoi bizzarri contenuti. La pubblicazione integrale del ciclo è meritoria proprio perché scoraggia la tentazione diffusa di accettare la singola proposta concettuale (l’opposizione tra zoé, «vita naturale riproduttiva», e bios «vita politica qualificata»: ivi, p. 103) per poi ricordare che comunque il filosofo è l’equivalente verbale del produttore di scarpe. Di Homo sacer preziosa perché filosofica è la cornice; discutibile perché filosofico è il singolo contenuto paesaggistico. È proprio la discutibilità, infatti, a fare la differenza tra filosofia e produzione di calzature. Le scarpe, notoriamente, non posso esser messe in discussione: piacciono o non piacciono, de gustibus non est disputandum. D’altro canto, tra le aziende del cuoio mettere in questione il principio di autorità è una pratica che pare non goda di reputazione ottima.
Sarebbe impensabile, nonché arrogante, tentare il bilancio di due decenni di ricerca in poche righe. Forse è possibile, il corsivo è d’obbligo, tratteggiare in modo maldestro il profilo di una traccia tematica sulla quale, grazie allo sguardo sinottico offerto da questa iniziativa editoriale, sarà più semplice discutere. È noto, ad esempio, che uno dei cardini della prospettiva agambeniana sia il concetto di «inoperosità». Nel primo titolo che compone il ciclo se ne individua il luogo d’origine: «Il tema […] della pienezza dell’uomo alla fine della storia […] appare per la prima volta nella recensione di Kojève a Queneau» (ivi, p. 66). Si aggiunge: «L’unico modo coerente di intendere l’inoperosità sarebbe quello di pensarla come un modo generico della potenza, che non si esaurisce […] in un transitus de potentia ad actum» (ibidem). In Homo sacer. Potere e nuda vita del 1995 il termine compare solo in questa occasione, sembra quasi destinato al ruolo di semplice addentellato dell’ampia ricostruzione biopolitica inaugurata dal volume. La rilettura sistematica dei testi conferma invece che, dopo l’incipit dimesso, l’inoperosità ha finito col divenire un concetto chiave. Insieme a «uso» e «tempo messianico» rappresenta l’architrave di un ampio lavoro archeologico.
A suggello del ciclo, ne L’uso dei corpi il termine ricorre nelle pagine finali. L’inoperosità e la contemplazione sono «gli operatori antropogenetici, che […] rendono il vivente disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare «politica» e «arte» (ivi, p. 1279). Il capitalismo contemporaneo tende a ridurre la prassi in produzione non solo nelle università: occupa il cittadino a cercare reddito e consumare merci; trasforma il lavoro linguistico (l’operatore al call-center, l’educatrice all’asilo, il rider in bici) nell’equivalente disperato della catena di montaggio. La «mancanza di opera» è un’espressione polemica verso uno dei mantra contemporanei, poiché indirizzata esplicitamente «contro l’enfasi ingenua sulla produttività e sul lavoro» (ivi, p. 383).
La questione è affrontata con chiarezza ne Il regno e la gloria, forse la sezione del ciclo che dedica al tema il maggior numero di pagine. L’inoperosità trova uno dei suoi esempi storici nel sabato ebraico: coincide con il tempo del «né un fare, né un non fare» (ivi, p. 603), richiama la figura di un dio «inoperoso» e insieme «immanente». Il «canto» angelico (ivi, p. 530), «l’inno» (ivi, p. 599) e la figura cavalleresca del «Re pescatore» (ivi, p. 445) sono solo alcune delle esemplificazioni di un concetto limite che mira al superamento del demiurgo artigiano ma anche della prassi rivoluzionaria (L’uso dei corpi aggiunge all’elenco la figura esistenziale dell’artista e la forma grammaticale del verbo deponente: ivi, pp. 1250-1278).
L’inoperosità non coincide con «l’acedia» (ivi, p. 603), alla cui analisi è dedicata un’opera che precede il ciclo (Agamben 1977), né con «inerzia o riposo» (Agamben 1995-2015, p. 610). L’espressione allude piuttosto a una diversa qualità della vita: se il religioso insiste sul carattere eterno del post mortem, Homo sacer si riferisce a «una attività senza sofferenza e molta facilità» (ivi, p. 611) in cui «il bios coincide senza residui con la zoé» (ivi, p. 612). La mancanza di opera non è solo una nuova forma politica ma fondamento dell’esistenza politica in quanto tale. Il brano che chiude il ciclo, citato poco sopra, ripete parola per parola un passo presente già ne Il regno e la gloria. Come si diceva, siamo di fronte a uno degli «operatori metafisici dell’antropogenesi» (ivi, p. 612) poiché «il politico […] è […] la dimensione che l’inoperosità della contemplazione […] incessantemente apre e assegna al vivente» (ibidem).
Da una rilettura complessiva emerge che l’inoperosità costituisce un termine chiave anche in un altro senso. Per un verso allude al compimento della natura sabatica dell’animale umano (ivi, p. 607). Per un altro, «inoperosità» è un termine metateorico. In conclusione a Il regno e la gloria si afferma, per esempio (ivi, p. 620), che «pensare la politica […] a partire da una disarticolazione inoperosa tanto del bios che della zoé è quanto resta assegnato come compito a una ricerca a venire». Inoperoso non è solo il fine dell’indagine ma anche il metodo di un «conflitto con il diritto» che lo renda «inoperoso attraverso l’uso» (ivi, p. 996). Senza opera è l’umano descritto dal ciclo; Homo sacer agisce tramite un processo di disattivazione inoperosa. Senza opera è l’oggetto (l’umano come animale privo d’opera che gli sia propria: ivi, p. 608), la sua trasformazione (far «uscire […] la politica dal suo mutismo e l’autobiografia dalla sua idiozia»: ivi, p. 1018) e anche il mezzo teorico con il quale mettere a fuoco sia il primo che la seconda (una concatenazione di testi non conclusa ma «abbandonata»: ivi, p. 1011).
Naturalmente, la centralità di un concetto non garantisce, di per sé, della sua efficacia. Dal punto di vista filosofico, lo abbiamo visto, l’inoperosità consiste in un processo di disattivazione che faccia «girare a vuoto» (ivi, p. 1278) le antinomie costitutive della tradizione metafisica. In molti casi, però, il loro superamento non sembra sfociare in un tertium datur, in un piano d’evasione da alternative asfittiche perché binarie. Spesso il ciclo sembra prediligere l’esaltazione pura di uno dei termini che costituiscono la coppia. Contro la tradizione che afferma «il primato dell’energeia» (ivi, p. 699), Agamben predilige la potenza (Nizza, 2019, p. 171); tra bios e zoé l’autore predica la necessità di «una forma di vita tutta versata nella nuda vita, un bios che è solo la sua zoé» (Agamben 1995-2015, p. 168). Circa la coppia poeisis/praxis, si opta esplicitamente per una «praxis sui generis» (ivi, p. 612).
L’inoperosità è una nozione interessata innanzitutto a disattivare la facoltà umana di azione con opera. In tal modo si rischia, però, una risposta reattiva. Contro il mondo neoliberale che riduce la necessità umana di produrre i mezzi per la sopravvivenza alla forma storica del lavoro salariato, Agamben è tentato di far fuori sia il secondo che la prima. Il pericolo è di esser catturati in una procedura inversa per orientamento circa il significato antropologico del lavoro, ma simile per logica. Rischiamo di trovarci ancora in una filosofia riduttiva e purista: invece del puro profitto si afferma la pura vita, al posto del solo atto Agamben auspica la pura potenza, la caricatura neoliberale della poiesis è sostituita dalla pura azione.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Stanze. Il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 2011.
G. Agamben, Homo sacer. Edizione integrale (1995-2015), Quodlibet, Macerata 2018.
J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), Jaca Book, Milano 2009.
D. Marconi, Il mestiere di pensare. La filosofia nell’epoca del professionismo, Einaudi, Torino 2014.
A. Nizza, Maradona impolitico? Per una critica dell’inoperosità, in “Palinsesti”, n. 5, 2019, parte monografica dedicata a Vita, istituzioni, forme-di-vita: a partire da “Homo sacer” di Agamben, a cura di A. Bertollini, G. Guadagni e C. D’Aurizio.
L. Parisoli, Il discorso francescano tra normativismo e anomia. Leggendo “Altissima povertà”, in “Palinsesti”, cit.