Il cinema può catturare l’amore, il gesto più impercettibile e fuggevole che si disperde nella quotidianità e da cui traspare la cura, la malinconia, la gioia dolente di un cuore traboccante d’emozione che dovrà scegliere se abbandonarsi alla fuga o se far ritorno al mondo con una rinnovata credenza in esso. Ciò cui si perviene è una fede riconfermata in questo mondo, una fede tutt’altro che romantica e stereotipata che sembrerebbe dover trasparire dai gesti cui si attribuisce corrivamente il ruolo di imbalsamare l’immaginario attorno alla realtà nipponica. In tal senso, i personaggi che popolano il cinema di Hirokazu Kore’eda percepiscono con forza la seduzione del nulla, di una fantasia che si scosta dal luogo in cui vivono: e per questo corrono o si inerpicano lungo sentieri tortuosi, mentre la macchina da presa li osserva a distanza o li segue nella loro corsa truffautiana, tanto convulsa ed eversiva quanto bruciata dalla passione per questo mondo cui ci si riconsegna dopo averne misurato i suoi più amari abissi.

Nonostante l’opera del cineasta giapponese abbia attirato l’attenzione fin dal suo primo lungometraggio di finzione Maborosi (1995) presentato in concorso al festival di Venezia, riuscendo a mantenere costante l’interesse della critica e del pubblico, è a partire da Father and Son (2013) – aggiudicatosi il Premio della giuria a Cannes – che il suo cinema ottiene un successo indiscutibile, culminato con la Palma d’oro per Un affare di famiglia nel 2018. La retrospettiva organizzata dalla Festa del Cinema di Roma e curata da Mario Sesti si propone di scandagliare i momenti chiave della carriera di Kore’eda, senza trascurare la sua produzione “documentaria” – che, di fatto, non può essere scissa da quella finzionale. Per le stesse ragioni, stupisce la mancanza all’interno della retrospettiva di due opere, essenziali per comprendere il suo cinema, in cui la distinzione tra i due reami si fa definitivamente indiscernibile: After Life (1998) sul versante finzionale e Without Memory (1996) su quello documentario.

Focalizzandosi sulla materia incandescente del reale, i film di Kore’eda sono più volte riusciti a ravvivare il “miracolo neorealista” grazie alla loro capacità di puntare dritto al potere schietto e brutale delle emozioni, alla viscosità scabra dell’immagine, senza mai tralasciare le implicazioni etiche insite nello sguardo che diventa forma cinematografica. Il suo cinema continua così a dimostrare come creazione e documentazione non costituiscano due pratiche contrapposte, ma siano invece pienamente convergenti. Impiegando la classificazione di Bill Nichols, già a partire dal suo documentario per la televisione Lessons from a Calf (1991), è possibile rintracciare nella prassi registica di Kore’eda la tendenza all’oscillazione tra cinema di “osservazione” e cinema “poetico”.

La sensibilità cinematografica del cineasta giapponese affonda le radici in un momento molto particolare della storia mondiale. Kore’eda fa tesoro delle esperienze seminali degli autori suoi conterranei che si trovarono a operare nell’immediato dopoguerra – mentre il neorealismo italiano sanciva «l’invenzione dell’umano al cinema, che è allo stesso tempo la reinvenzione del cinema nel momento della sua maturità» (De Gaetano 2014, p. 16) – e continua il percorso avviato da registi quali Hiroshi Shimizu (Children of the Beehive, 1948), Kaneto Shindō (Children of Hiroshima, 1952), Susumu Hani – Children in the Classroom (1954), Children Who Draw (1956), Bad Boys (1961) – e Mikio Naruse (Floating Clouds, 1955).

Similmente ai lavori televisivi, le opere di finzione di Kore’eda prendono spesso spunto dal tessuto vivo della realtà temporalmente più prossima: se pertanto la “verità dei fatti” – da non accostare unicamente come puri dati cronachistici, ma avendo riguardo per le singolarità coinvolte – si riduce spesso a un miraggio, non resta che indugiare sul sentire dei personaggi, adottando un punto di vista interno alla vicenda, ma da essa non del tutto riassorbibile (The Third Murder). Così, ad esempio, Nessuno lo sa (2004) è ispirato a un caso di abbandono di minori che ha richiesto al regista quindici anni di indagini, riscritture della sceneggiatura e ricerca degli attori; mentre il cassavetesiano I Wish (2011) intreccia invece le vicende “finzionali” di due bambini – fratelli nella vita reale, che vivono in due città diverse dopo la separazione dei genitori – con la cronaca dell’arrivo dello shinkansen nella regione del Kyūshū.

Realizzando film che non si sbarazzino delle miserie del mondo ma la cui struttura possa anzi abbracciarle meglio, Kore’eda sposta «l’attenzione verso i bambini per sfasare il punto di vista» (Morreale, in De Gaetano 2014, p. 118) e tentare di comprendere il ruolo della famiglia all’interno del più ampio spettro della società, svincolandolo dal legame di sangue, la cui pretesa onnicomprensività si rivela sovente tanto stringente quanto superficiale (Un affare di famiglia). In maniera non troppo dissimile, come accade in Air Doll (2009), il film può assumere un tono “fantastico”, allorché una bambola gonfiabile prende vita e vaga per la metropoli con occhi pieni di stupore infantile, osservando senza pregiudizi: la macchina da presa si riappropria del reale mediante un «nuovo sguardo che nasce nonostante tutto dal/contro il male» (ivi, p. 121).

C’è un unico, grande quesito dalle molteplici inflessioni che si dispiega nel cinema di Kore’eda: che cos’è la verità? Che cosa significa professare il vero? Forse l’unica verità da cui verremo accompagnati per l’eternità (After Life) può derivare soltanto dal processo di falsificazione messo in atto dalla macchina cinematografica? Il cinema sarebbe dunque una protesi della memoria umana, non per sua capacità di registrare i propri ricordi, ma le proprie dimenticanze: uno spazio-tempo in cui le discontinuità, nel loro dispiegarsi simultaneo, secernono la carica utopica insita nella storia. Da qui la forte «dimensione etica» – redentrice – del cinema a partire da una «prospettiva morale individuale» (Bazin 1999, p. 310).

All’apparenza sommesso e ossequioso della tradizione, quantomeno agli occhi delle platee occidentali, il cinema di Kore’eda è stato ripetutamente accostato a quello di Ozu. Continuando ad alimentare la catena di fraintendimenti, a volte anche piuttosto marchiani, e ignorando totalmente la loro carica eversiva, le opere dei due cineasti sono state considerate troppo tradizionaliste. Ma è forse proprio in questo metaforico passaggio di testimone, nel tentativo surrettizio di affibbiare a Kore’eda il titolo di nuovo “regista più giapponese tra i registi giapponesi”, che si profila uno snodo di riflessione teorica da cui ripartire per approcciarsi in maniera diversa, più proficua e non essenzialista, alla “tradizione giapponese”.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
R. De Gaetano, a cura di, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. 1, Mimesis, Milano 2014.
B. Nichols, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano 2014.

Share